giovedì 2 giugno 2011
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La consultazione referendaria cui l’e­lettorato è chiamato tra un paio di set­timane viene politicizzata in modo os­sessivo dai promotori dei quesiti abroga­zionisti, che puntano a dare a un even­tuale successo il significato di un’esten­sione della sconfitta subita dalle forma­zioni che compongono la maggioranza di governo nel recente voto amministrativo parziale. In realtà, l’istituto referendario è stato previsto dai padri costituenti come strumento teso a consentire una verifica popolare sulla validità di leggi contesta­te. Spetta a chi propone i quesiti ottenere u­na maggioranza di partecipanti al voto, che non viene considerato un dovere ci­vico come lo è invece quando si tratta di eleggere istituzioni rappresentative della volontà popolare. Si tratta di una distin­zione importante, che infatti non vale per i referendum confermativi di modifiche costituzionali approvate a maggioranza semplice dalle Camere. Non partecipare al voto, in caso di referendum abrogativo, è una forma di espressione di una volontà politica, quella di preferire che su mate­rie complesse e controverse si cerchi una soluzione parlamentare invece di un ver­detto ovviamente semplificatore come quello che nasce da un 'sì' o da un 'no'. Le materie sottoposte al giudizio dell’e­lettorato, peraltro, alludono a problemi complessi e a nodi istituzionali che han­no una loro corposità oggettiva. Dire di 'no' definitivamente all’ipotesi di una scelta nucleare, che peraltro si potrebbe realizzare in Italia solo dopo che siano sta­ti definiti severi standard di sicurezza a li­vello continentale, e farlo magari sull’on­da emotiva che si è sviluppata nel mon­do dopo il disastroso tsunami giappone­se, non darebbe comunque una risposta al tema della dipendenza energetica del-­l’Italia, che peraltro, a causa di rivolgi­menti politici nelle aree di produzione de­gli idrocarburi, rischia di accentuarsi. Di­re di 'sì' e basta rischierebbe di essere compreso come un mandato in bianco a perseguire una politica energetica 'nu­clearizzata'. E anche questa non sarebbe una risposta sensata. L’altra questione, quella della gestione pubblica o privata dei servizi (comunque pubblici) e in special modo quelli di di­stribuzione dell’acqua, allude a due pro­blemi assai gravi. Il primo è la tendenza a fare business su un bene di tutti per defi­nizione, ma anche così prezioso da esse­re da sempre (e ancor più in futuro) mo­tivo di conflitti e di vere e proprie guerre. Il secondo è la colossale dispersione di ri­sorse idriche, che la gestione pubblica non solo non ha risolto ma spesso ha aggra­vato, al punto che per un risanamento ef­fettivo del sistema sarebbero necessari stanziamenti colossali, senza i quali, pe­raltro, l’equa generalizzazione del diritto all’accesso a un bene primario resterà so­lo formale, quale che sia la scelta sulla ge­stione degli impianti attuali. Anche l’ultimo quesito, quello sul legitti­mo impedimento, rimanda a un nodo i­stituzionale oggettivo, che va al di là del­le specifiche vicende giudiziarie dell’at­tuale premier Silvio Berlusconi. Una vol­ta abolita l’immunità parlamentare, che era stata prevista nella Costituzione del 1948, il delicato rapporto tra poteri – ese­cutivo, legislativo e giudiziario – è stato spostato e questo può determinare squi­libri strutturali. Si può ritenere che l’at­tuale normativa non garantisca da altre possibili e opposte forzature, ma è fuor di dubbio che una pura e semplice rimo­zione della normativa oggi vigente (una sorta di mini-scudo per capo del governo e ministri) lascerebbe comunque irrisol­to un problema reale. Ci sono ragioni per riflettere sul merito dei quesiti, in modo da decidere se e co­me partecipare al voto, che non sembra utile cancellare o sommergere con il ge­nerico appello a un voto impropriamen­te caricato di significati politici. Le que­stioni poste, checché se ne dica, non ri­guardano il destino di un esecutivo e del suo leader, ma il futuro di un Paese. E bi­sogna far sì che, nonostante certo fra­stuono, questo risulti chiaro.
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