mercoledì 10 dicembre 2014
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Di fronte a un adulto che uccide un piccolo la reazione della gente è crudele: "Buttare via la chiave". "Buttare via la chiave" è la condanna massima dei popoli che non hanno la pena di morte. Non significa soltanto: "Mettiamolo in prigione", ma significa anche: "E non pensiamoci più". Non avere la chiave in tasca è la condizione per non pensarci più: non puoi più farci nulla, se volessi tirarlo fuori non hai neanche la chiave. Adesso, in Italia, siamo di fronte all’ennesima incarnazione di questo crimine, potenziato per mille. Non si tratta soltanto di un adulto che ha ucciso un piccolo, ma di una madre che avrebbe ucciso il figlio.Naturalmente, stiamo alle notizie quali erano ieri, vorremmo tanto che cambiassero in meglio, e se oggi accadesse proveremmo un senso di liberazione. Finché le notizie restano quelle, la s-naturalità del crimine sta nel fatto che la madre che ha dato la vita al figlio (dare la vita non significa soltanto fare un dono, ma fornire il contenitore di tutti i doni che la vita conterrà), poi la stessa madre toglie al figlio la vita, e così gli toglie tutti i doni che dalla vita il figlio poteva ricevere. È il massimo male. Fare il male è un test. Non tutti siamo in grado di superare il test. Devi reggerlo con cuore, cervello e nervi. Lo vedi, mentre lo fai. E quindi devi reggerlo anche con gli occhi. C’è una differenza emozionale tra uccidere con uno strumento e uccidere con le mani. Lo strumento (un’arma) distanzia ed esclude il contatto. Ma questa donna avrebbe ucciso con le mani. Non è uno choc tollerabile per una madre. E infatti, se le cose sono andate come sembra e come non vorremmo che fosse, lei non l’ha tollerato. Mentre faceva quel che ha fatto, e anche dopo, e anche adesso, è rimasta "spezzata".Dobbiamo smettere di credere che sappia tutto e non ci dica niente. Questa donna ci dice tutto, fin da quando l’hanno prelevata la prima volta e l’abbiamo vista ripresa frontalmente dalle telecamere, mentre avanzava verso di noi, con la testa innaturalmente inclinata all’indietro, la faccia in su, incapace di muoversi e di reggersi. Per giorni abbiamo letto quell’immagine come se dicesse: "Che orrore mi hanno fatto!". Ora sappiamo che il messaggio è quasi certamente diverso: "Che orrore ho fatto!". Un poliziotto le dà degli schiaffetti sulla guancia destra, per scuoterla, ma lei non sente. Non è lì. È altrove. È spezzata. Gli psichiatri parlano di "scissione della coscienza". Perciò questa donna "non dice contraddizioni", ma "dice bugie". È diverso. Non contrasta con la verità, ma semplicemente ha un’altra verità. E questa scissione (stiamo entrando in un terreno oscuro e pericoloso) non comincia dopo il fatto, come accadrebbe se fosse una tattica difensiva, ma comincia "col fatto", lo include.So bene che questo è terreno degli psichiatri e non degli scrittori, ma gli scrittori che affrontano temi come il delitto hanno questo problema: quando portano il loro personaggio a compiere il delitto, "cambiano" il personaggio, in quel momento è un altro, come un sogno rispetto alla vita. Tanto che poi, riemergendo dal delitto, chi ha ucciso si chiede se ha sognato. Il delitto spacca la vita di chi lo fa e spacca la sua famiglia, se ne ha una. Il marito di questa madre dichiara: "Deve dirmi perché l’ha fatto, e dopo può anche morire". È uno scambio: offre la vita della moglie per quella del figlio. Non riconosce la moglie, c’è un’altra al suo posto. La moglie è due. Lui l’aveva chiamata al telefono pochi minuti dopo il delitto, le chiese: "Tutto bene?", e lei rispose: "Tutto a posto, bimbi a scuola". Lui ne chiama una e gli risponde un’altra.Non lo dico per sminuire la colpa. Sto cercando di capire perché al grido "ergastolo", che ieri sarebbe stato "a morte", subentra la pietà. I giornali rievocano due tentativi di suicidio di questa donna, nel suo breve passato. Questo sarebbe il terzo tentativo, perché un figlicidio è un suicidio. Purtroppo, a quanto s’intende, stavolta è riuscito
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