domenica 4 novembre 2012
COMMENTA E CONDIVIDI
A quattordici anni avevo allineati nella mia libreria i titoli del "Mondo piccolo" di Guareschi. Ma se mi capitava, nel liceo di Milano che frequentavo, di parlare di Guareschi, vedevo sulla faccia dei professori una superiore condiscendenza; quando non, nei più politicizzati, un’avversione per quel 'fascista' - sorta di anatema che peraltro, in quegli anni, era generosamente usato. Don Camillo e Peppone non erano personaggi presentabili nel salotto buono della cultura dominante. E così è stato, mi pare, fino ai giorni nostri.Mi ha fatto quindi piacere leggere (l’altro giorno) qui su "Avvenire" ciò che Goffredo Fofi, intellettuale di formazione marxista, icona della critica letteraria italiana, ha scritto su don Camillo e Peppone. Che rappresentano per Fofi «La personificazione di due istanze forti di epoca forte, quella di un cattolicesimo battagliero nella sua componente più tollerante e 'dalla parte del popolo', e quella di un comunismo di base che fu ben diverso da quello dei vertici, e che si incontrava con i vertici del cristianesimo sociale per il suo millenarismo, per la sua ansia di giustizia». Istanze forti di un’epoca forte. Il granitico prete che per gli italiani avrà sempre la faccia di Fernandel, e il sindaco con i baffi alla Stalin di Gino Cervi. Quanto li abbiamo amati quei due, sui libri e nei film in bianco e nero che ormai sappiamo a memoria; e tuttavia, se in un distratto zapping ci capitiamo sopra una sera, spesso restiamo a guardarceli ancora.E i figli adolescenti pure stranamente rimangono e si affezionano a quei due, come se anche per loro rappresentassero qualcosa: un’Italia che non hanno visto e però familiare e cara, come portasse dentro la traccia di un Dna che ci accomuna. Quella radice che istintivamente avvertivamo da ragazzi, con un’ombra già di nostalgia – come se don Camillo e Peppone si stessero allontanando dalle nostre province, o, piuttosto, come se l’Italia si stesse allontanando da loro.Abbiamo amato di Peppone certi momenti di imbarazzo nel suo formalmente inossidabile ossequio al Partito, e il desiderio invece autentico di un bene per la sua gente. In don Camillo, quel modo straordinario di parlare con Cristo sulla Croce come a un uomo vivo; e, sotto all’ironia, il profondo rispetto, il brusco tacito affetto per quelli che lui chiamava «bolscevichi». Abbiamo amato anche la voce di quel Crocefisso – generosa, larga, mai moralista. E la carnalità di quella Bassa, dentro la quale un prete e un comunista potevano darsele di santa ragione, per poi ritrovarsi, su ciò che conta, amici.Ci siamo chiesti, certo, quanto vera fosse l’epopea, o se Guareschi non avesse messo da parte le profonde ferite lasciate nel "mondo piccolo" dalla guerra, per raccontarci un mondo come l’avrebbe voluto. Io, non c’ero; figlia e nipote di emiliani, però, in Guareschi ritrovavo come gli accordi di una musica che, nata a Milano, avevo ancora dentro.O forse il "Mondo piccolo" era una metafora più larga, di un certo modo di essere italiani; di uno sguardo benigno verso l’altro, di un’ironia che accoglie e non respinge, di una memoria antica di un bene più grande e comune. Di un’ansia di giustizia, come dice Fofi, che autenticamente fecondava, in quegli anni, cattolici e "compagni", almeno a livello di popolo; per cui ci si poteva apparentemente detestare, ma in fondo si era coscienti di qualcosa di anteriore, che teneva assieme.Così che forse il motivo per cui ci fermiamo davanti alla tv quando passa don Camillo, è una nostalgia; dell’Italia secondo Guareschi, di tanto più povera, e però più felice. Di gente appassionata al vivere comune, rissosa, anche, e senza ritegni partigiana; però con una trama forte dentro, che tiene insieme. Come si vede quando Peppone esibisce il figlio neonato dalla finestra della Casa del Popolo, e la gente applaude, lieta di un nuovo bambino. Libero Camillo Lenin, lo chiameranno, e in quel nome c’è tutto: desiderio di giustizia e sussulto di rivoluzione, e un prete ingombrante, eppure amico. E quando il film finisce ci accade perfino di sognare: che quello sguardo possa ritornare in questa Italia di disillusione e di rabbia. Che tornando da un’amnesia ci si ricordi della brusca, muta ma radicale solidarietà e affinità di intenti tra il compagno Peppone, e don Camillo.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: