mercoledì 13 agosto 2014
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Il contrasto tra il tentativo di vivere un momento di quiete estiva per godere della bellezza della natura e dei propri cari in luoghi di villeggiatura ordinati nei quali i presenti (più o meno) rispettano norme morali e sociali di reciproca convivenza e le notizie raccapriccianti che giungono dai giornali relativamente al tentato genocidio da parte dei miliziani dell’Isis di tutti coloro che non appartengono alla loro religione (cristiani ma anche yazidi e musulmani sciiti) è veramente stridente.  Come è possibile che i feroci seguaci di un autoproclamato “califfo” e gli abitanti di un ordinato paesino dell’Alto Adige facciano parte della stessa umanità? Dove nascono e si sviluppano differenze e traiettorie diverse di esseri umani facenti parte della stessa grande famiglia? Perché noi siamo sotto l’ombrellone o a fare passeggiate in montagna o a goderci qualche giorno di riposo mentre c’è chi perseguita altri esseri umani di diversa fede con l’intento di porre in atto un vero e proprio genocidio? Siamo abituati a misurare il visibile, a sgomentarci per le variazioni zerovirgola del Pil (che ovviamente contano), ma facciamo fatica a osservare e a misurare il patrimonio invisibile dei nostri territori, quel capitale sociale che è fatto di un hardware (le forme associate di organizzazione) e di un software (quelle attitudini buone che gli studiosi di scienze sociali ed economiche classificano come altruismo, avversione alla diseguaglianza, reciprocità, cooperazione, fiducia e meritevolezza di fiducia) che sono parte costitutiva delle fondamenta del vivere sociale. Sempre di più gli economisti e gli studiosi sociali si stanno accorgendo dell’importanza di misurare e monitorare questo capitale invisibile. È evidente, infatti, che dalle stesse condizioni di partenza (la comune natura umana) possono prodursi traiettorie completamente diverse che portano a esiti lontanissimi tra di loro.   Una vasta mole ormai consolidata di ricerche documenta che quando lo stock di capitale sociale è insufficiente si precipita nei conflitti etnici e nella guerra civile. Quando invece lo stock è elevato abbiamo la coesistenza pacifica delle diverse etnie, la gestione modello di beni comuni (come i pascoli alpini) anche in assenza di diritti proprietari e di esplicite norme coercitive, un numero molto elevato di cittadini che non getta carte per terra, che dà e riceve fiducia, che rispetta le regole stradali anche in assenza di vigili, che paga il biglietto quando sale sugli autobus. E, ancora più importante, che si dimostra meritevole di fiducia rispettando le regole in quelle aree grigie delle relazioni socioeconomiche in cui non c’è copertura legale e contrattuale (la stragrande maggioranza delle nostre relazioni). Se lo stock di capitale sociale è sufficientemente elevato (ed è ovviamente accompagnato da buone leggi e regole formali) le persone si fidano, accettano il “rischio sociale” della cooperazione, costruiscono relazioni socialmente ed economicamente feconde, valorizzando il gioco di squadra. E le società prosperano.   Un punto chiave spesso trascurato è però che, per assicurare la prevalenza della componente buona dell’animo umano, è necessario un continuo esercizio di modellamento e di stimolo alla pratica delle virtù demandato tradizionalmente ad alcune agenzie formative (Chiesa, scuola, famiglia). Questo prezioso patrimonio invisibile che chiamiamo “capitale sociale” tendiamo erroneamente a considerarlo fisso e immutabile. Lo abbiamo invece ereditato dalla nostra storia e cultura, dagli sforzi, dal sangue e dal sudore delle generazioni passate. È tutt’altro che costante e stabile nel tempo e rischia di deprezzarsi e deteriorarsi se non lo coltiviamo.  In passato l’investimento in capitale morale e sociale che garantiva la tutela e l’accrescimento dello stock di capitale sociale era in un certo modo scontato. Gli “esercizi morali e spirituali” – a cui ci hanno a lungo invitato le agenzie formative già richiamate – hanno svolto, nel tempo, una lenta e paziente azione di modellamento moderando i nostri istinti, educandoci al rispetto altrui e alla considerazione degli effetti esterni negativi delle azioni sui nostri simili. Aiutandoci ad assimilare, come minimo, la famosa regola aurea «non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te» che appare lapalissiana dal punto di vista della razionalità, ma è tutt’altro che scontata dal punto di vista dell’istinto. Questo lento e paziente esercizio di modellamento è oggi fortemente a rischio per quella quota crescente di individui abbandonati a se stessi, oggetto di predicazioni fanatiche e di modelli autoritari e intolleranti, orfani di credi e tradizioni religiose autentiche, privi di formazione e – per diversi motivi – di affetti familiari, che non trovano certo sul web alimenti di questo tipo imbattendosi spesso, al contrario, nella tendenza ad amplificare emotività, rabbia e velocità di reazione, cioè l’opposto della riflessione e del discernimento necessari per maturare virtù civiche e capitale sociale.   Un altro elemento che purtroppo fa da amplificatore all’equilibrio perverso e negativo che l’umanità può raggiungere è che un manipolo di violenti attraverso il terrore, la violenza e la paura può tenere sotto scacco una maggioranza di persone inermi e civili. Ed è per questo che i fatti di questi giorni in Iraq e in Siria ci stanno facendo riflettere sull’importanza di organizzare una difesa vigile ed efficace nei confronti di tali insopportabili degenerazioni.  Resta il fatto che gli studi sulla soddisfazione di vita confermano che chi ha preso la strada più lunga e in leggera salita e si è fatto modellare dall’esercizio delle virtù è più contento della sua vita perché la felicità è l’effetto non intenzionale di una vita ben spesa. Chi, al contrario, si è sottratto a quel vaglio e si è schiacciato su “beni di comfort” che garantivano soddisfazioni immediate e persino violente nel presente (anche in situazioni meno estreme ed eclatanti di quelle da cui è partita la riflessione) non ha investito e raccolto altrettanto. Si tratta di un paradosso soltanto negli esiti e per chi ignora la traiettoria che porta all’equilibrio. Quanti non hanno investito con fatica nell’esercizio delle proprie virtù non sarebbero, infatti, in grado neanche volendolo di cambiare rapidamente percorso e godere di tutta una serie di beni (“beni di stimolo” li chiamava un economista geniale come Tibor Scitovsky) quali il conforto di un sincero cammino spirituale, la fruizione artistico-culturale, l’esercizio di uno sport, il godimento e l’utilizzo di competenze professionali e di conoscenze linguistiche. E dunque, proprio come nell’incipit della “Divina Commedia” di Dante non è possibile transitare rapidamente dall’inferno a contesti migliori senza un percorso e un investimento costante e paziente. Oltre che a rinforzare il ruolo delle tradizionali agenzie formative, se vogliamo contribuire positivamente alla legge di moto di questo prezioso capitale invisibile che è il capitale sociale possiamo utilizzare ulteriori importanti strumenti. Come quello – scelto da alcuni governi, quello italiano compreso – di puntare finalmente forte sullo sviluppo di un’economia civile del Terzo settore per trasformare la piazza sociale ed economica in luogo dove si producono e non si distruggono virtù civiche. Servizio civile universale, premio fiscale al consumo e risparmio socialmente responsabile e stimolo alla biodiversità organizzativa delle imprese dove la competizione tra diverse forme organizzative può ibridare e civilizzare il mercato sono direzioni fondamentali verso le quali muoversi, contribuendo alla crescita di quel “capitale sociale invisibile” che è il collante delle società.  La sfida, non aggirabile, è mantenere e diffondere questi ingredienti di saggezza millenaria in un mondo sempre più impaziente, schiacciato sul presente e tentato dal peggiore ritorno al passato.
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