martedì 4 settembre 2012
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Tre considerazioni, anzi quattro, su quella riforma degli studi giuridici e della professione forense, di cui si continua a discutere e, talora, così animatamente.Prima. È assolutamente vero che vi è una inflazione del numero degli avvocati: basta un confronto con quanto accade negli altri Paesi. Credo, anzi, che uno dei fattori dell’abnorme durata delle cause sia dovuta anche all’eccessivo numero di patrocinanti: sembra passato il tempo in cui l’avvocato sconsigliava al cliente di iniziare una causa senza fondamento; di ricorrere in appello quando la sentenza di primo grado appariva tombale. Non è pensabile un numero chiuso per le facoltà (o, oggi, i dipartimenti) di Giurisprudenza; forse si potrebbero immaginare provvedimenti del genere, invece, per gli albi professionali. Del resto, per altre professioni è già così.Seconda. Occorrerebbe riflettere più seriamente sul fatto che per i giovani laureati in giurisprudenza la scelta della professione forense è, in molti casi, un ripiego, non trovando altrove lavoro. Un tempo la maggior parte di loro finiva nelle pubbliche amministrazioni, a livello statale o locale; solo una minoranza abbracciava le professioni giuridiche classiche: magistratura, avvocatura, notariato. Oggi la pubblica amministrazione non assorbe quasi più. Il problema è, dunque, quello di scoraggiare i giovani dall’intraprendere gli studi giuridici: non vale più l’adagio secondo cui la laurea in giurisprudenza apre tante strade. Occorre una seria attività di orientamento da parte delle Università, ma anche da parte delle scuole superiori. Però mettiamoci una mano sulla coscienza: verso quali altre lauree dirottare? Quali sono i percorsi universitari che, oggi, garantiscono sbocchi nel mondo del lavoro? Il quadro è desolante e, tra l’altro, dimostra l’infondatezza del ritornello per cui il sistema universitario nazionale, rispetto a quelli di Paesi paragonabili al nostro, sforna troppo pochi laureati. Il vero problema è nella società, che non li assorbe.Terza. Il ministro della Giustizia ha anticipato le linee di una possibile riforma degli studi giuridici, strutturata in un triennio di base comune a tutti e in un biennio di specializzazione per la magistratura, l’avvocatura e il notariato. Benissimo, anche se il sistema universitario è stanchissimo, stremato da riforme e controriforme che si susseguono vorticosamente. Il progetto ha una sua logica, ma è da chiedersi: sono i giovani già così maturi, dopo il triennio, per una scelta radicale e definitiva? E se non si supera il concorso in magistratura fino al momento in cui è interdetto ritentarlo, che si farà? E se ci si accorge, dopo i primi approcci, che l’attività notarile non è proprio il massimo delle attitudini, o non si riesce ad entrare in un Ordine che è il più piccolo, chiuso ed elitario? E gli interrogativi potrebbero continuare. Ma c’è un’osservazione più di fondo: al di fuori delle professioni giuridiche classiche, non ci sono nella società – nel privato e nel pubblico, in Italia ed in Europa – esigenze di competenze giuridiche diverse? E dove formarle? Come formarle?Quarta. Le Scuole di specializzazione per le professioni legali, istituite nelle Università come corsi di preparazione concreta, specifica, alle tre professioni forensi, sono sempre state oggetto di una più o meno palese avversione degli Ordini degli avvocati, che hanno creato le loro scuole e che oggi pretendono di avere il monopolio in materia. Ma chi è naturaliter addetto alla formazione: l’Università o un Ordine professionale? Si dirà: ma le Università danno una formazione teorica, mentre il professionista abbisogna di pratica. Vero. Ma non è questa proprio una delle ragioni per cui ai professori di Giurisprudenza è consentito svolgere attività professionale e, di fatto, nella quasi totalità, la svolgono? Comunque non è difficile ovviare l’esigenza in altro modo e molte Scuole di specializzazione già lo fanno egregiamente.
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