Quando ridere fa davvero male: chi rispetta la morte ama la vita
domenica 1 luglio 2018

Caro direttore,

lunedì è morto mio cugino Adriano: non era un cattolico praticante, ma ricordo che, quando accompagnavo il sacerdote per la benedizione delle famiglie, il Padre Nostro recitato da Adriano era davvero una preghiera che partiva dal suo cuore. C’è stato ieri il funerale e c’era un mare di gente. Moltissimi in chiesa e molti anche fuori. Quelli di fuori dopo un po’ hanno cominciato a parlare tra di loro e si sentivano anche momenti di ilarità da pomeriggio d’estate al bar. Non so se questo succede anche in altre parti d’Italia. Le scrivo da una zona d’Italia che ha sempre visto la Chiesa come una sorta di presenza ingombrante… o forse il silenzio della morte è difficile da digerire per noi ancora “in cammino”, oppure la società è davvero molto peggiorata. Presi uno a uno (gli ilari) sono persone dabbene, ma è normale un simile rigurgito di cafonaggine difronte alla morte e al dolore dei famigliari?

Marco Sostegni, Vinci (Fi)

Il congedo da questa vita non è mai una festa. È così anche per i cristiani che pure considerano la morte parte e porta: parte della vita e porta della Casa del Padre, che nelle nostre migliori speranze ci attende se abbiamo saputo ben attendere al cammino verso di essa e se abbiamo provato a essere concreta eco su questa terra dell’amore di Dio. Eppure in diverse culture umane, cristiane e no, c’è anche una non sempre sommessa ma sempre governata vena di allegria che può emergere nelle cerimonie funebri (e negli immediati dintorni di esse). Ma un conto è questo e tutt’altro, caro amico, è lo schiamazzo indifferente o l’indifferente ilarità che tanto l’ha ferita e delusa. Essere dabbene, lei ci ricorda, non mette automaticamente al riparo dal rischio della «cafonaggine», persino in simili circostanze tra le pochissime che riescono a unire intimità e pubblica solennità. I lettori sanno, perché sulla questione ho ragionato con alcuni di loro in questo stesso spazio di dialogo, che non mitizzo il dolore e credo che mai vada ricercato o addirittura, in qualunque maniera, imposto a sé e agli altri. Da giornalista penso anche alla cosiddetta “tv del dolore”, ma da cristiano penso anche a chi cade in questa tentazione persino con le più sane (e sante) intenzioni. Ma mi rendo conto che uno dei grandi mali del nostro tempo è proprio l’attitudine opposta: un’ossessiva volontà di rimozione del dolore, fino all’anestesia dell’anima e della coscienza. Fino a non stimare più il dolore dell’altro, fino a non sentire più il peso e il significato della morte, comunque essa arrivi e chiunque riguardi. Che accada in un borgo della bellissima campagna toscana o nel mare che lambisce le nostre coste. Le conseguenze sono gravi anche quando apparentemente non fanno rumore: occhi e cuori chiusi, mani ritratte o alzate a percuotere o protese solo a prendere, e anche certe risate noncuranti: urtante punteggiatura di piccoli discorsi che poco o nulla sanno dire del senso ultimo della povera e grande esistenza degli uomini e delle donne, e della fragile ed eterna forza dei legami che tutti noi tessiamo e che ci fanno vivi anche oltre la morte. Proprio così chi non ascolta e, non s’inchina davanti a tutto ciò che una morte d’uomo dice, non ama la vita e non sa che cosa sono davvero il dolore e la gioia.

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