Profughi sulla tragica «via balcanica»
martedì 5 gennaio 2021

Con il favore forse del clima natalizio, con quel tanto di buoni sentimenti che ancora riesce a smuovere, almeno una parte del sistema mediatico italiano si è accorto della drammatica situazione delle persone in cerca di asilo bloccate in Bosnia e lasciate senza assistenza: una crisi umanitaria che su queste pagine viene documentata da tempo.

Negli stessi giorni è uscito il Libro Nero dei respingimenti, un rapporto di 1.500 pagine pubblicato dal Border Violence Monitoring Network e frutto di quattro anni di lavoro, in cui sono state raccolte 892 testimonianze e documentata l’esperienza di 12.654 vittime di violazioni dei diritti umani lungo la rotta balcanica. Anche questo un fronte tenuto aperto da questo giornale, da ultimo con i reportage di Nello Scavo corredati di drammatiche testimonianze fotografiche.

La Croazia si è rivelata il punto più critico di una vicenda che si è consumata a lungo in una sostanziale indifferenza ai confini della Ue. Lì, i migranti vengono sistematicamente picchiati, derubati e ricacciati oltre il confine con la Bosnia. Soltanto tra gennaio e novembre del 2020, il Danish Refugee Council ha registrato 15.672 respingimenti dalla Croazia verso la Bosnia, classificandone come «violenti» il 60%.

La vicenda del confine balcanico segna un salto di livello nella strategia del doppio standard applicata dalla Ue nella gestione degli ingressi di rifugiati. Finora il rispetto formale delle convenzioni internazionali sull’asilo era aggirato mediante l’esternalizzazione delle frontiere, ossia scaricando la responsabilità sui Paesi di transito mediante sussidi economici e pressioni politiche: Niger, Turchia, Libia sono i casi più noti. Ora invece è emerso - e ha portato a iniziative politiche e giudiziarie in sede europea e nella stessa Croazia - un ricorso alla violenza alle frontiere stesse della Ue. forse da parte di forze di polizia di un Paese membro o forse da parte di elementi definiti «paramilitari» che sarebbero però in grado di 'operare' in modo sistematico in un Paese dell’Unione.

Respingimenti collettivi e brutali erano già accaduti sul confine greco-turco, ma non ancora in una forma così organizzata, aggressiva ed estesa. L’altro elemento entrato in gioco è la proliferazione dell’intolleranza, diventata una pietra d’inciampo per la strategia europea del doppio standard. Finora la non accoglienza europea poteva appoggiarsi su qualche precaria forma di protezione al di là delle sue frontiere.

Questa volta invece al confine bosniaco i sussidi economici non sono bastati a oliare la macchina dell’accoglienza: le popolazioni locali hanno inscenato proteste e scoraggiato i tentativi di approntare soluzioni alternative per porre rimedio alla chiusura del campo di Lipa. In altri termini, hanno imitato le dimostrazioni di ostilità verso i profughi così spesso viste in Italia e in altri Paesi negli scorsi anni. Il copione è quello noto, anche se forse con qualche ragione in più: comunità locali gravate da povertà, disoccupazione, emigrazione dei giovani si sentono chiamate da poteri esterni e lontani a farsi carico dell’accoglienza di gente più sfortunata e bisognosa di loro.

Anche se in realtà non tirano fuori un euro, anzi ne ricevono. Non si sta ripetendo in Bosnia il mezzo miracolo che avviene da anni in Libano, in Giordania e in Turchia, dove le popolazioni locali bene o male si adattano alla convivenza con numeri di profughi da noi mai neppure sfiorati: 134 ogni 1.000 abitanti in Libano, 69 in Giordania, 43 in Turchia, contro 25 per la Svezia, 14 per la Germania e 3,4 per l’Italia.

Ci sono persone che rischiano di morire di fame, di freddo, di malattie non curate ai confini dell’Europa: una catastrofe umanitaria da evitare, come hanno chiesto l’Organizzazione mondiale delle migrazioni e l’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati. Ma al di là di un’urgente risposta all’emergenza, va ripensata profondamente la politica europea dell’asilo. Il doppio standard non è soltanto ingiusto, ma anche fallimentare, e purtroppo mortifero.

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