sabato 7 maggio 2011
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Il Bici Day si celebra domani. Amministratori in carica e candidati saliranno goffi in bici, arrancando accanto ai lievi veterani, ne scenderanno e non ci saliranno più. Per questo il vero Bici Day comincerà lunedì mattina. Quando a ogni italiano, lavoratore o studente, si porrà l’alternativa che un ciclista (giornalista, sceneggiatore, attore) parigino, Didier Tronchet, così riassume: «La nuova rivoluzione (cicloruzione) può venire semplicemente da questa alternativa mattutina: prendo l’automobile o la bicicletta?». Se fossimo individui guidati dalla logica ferrea, nessun dubbio: sempre e soltanto bici, tranne in caso di acquazzone sferzante. E la neve? Si appiccica e non bagna, e un buon battistrada la addomestica; assai più rischioso uscire in automobile. Se fossimo sempre e solo razionali, come i vulcaniani di Star Trek, non ci sarebbe bisogno di Bici Day. L’uso bulimico dell’automobile è illogico. Ma a far sorridere e a suscitare compatimento sono i rari ciclisti. Rari almeno nelle grandi città; nei borghi medi e piccoli la bicicletta è la norma. Ma basta andare all’uscita di una scuola: nei piccoli centri ne escono gruppi scomposti ma ordinati di studenti come nubi di moscerini; nelle grandi città i Suv dei genitori attendono i pargoli in tripla fila. No, la ragione non c’entra. C’entrano la cultura, il sogno e la poesia. Cultura: negli Usa o in Nordeuropa nessuno fa una piega se il magazziniere, l’impiegato e il dirigente arrivano in ufficio tutti democraticamente in bicicletta, si fanno la doccia, si cambiano e ognuno con la sua divisa comincia a lavorare. In Italia, se l’amministratore delegato arriva al lavoro in bicicletta, i suoi dipendenti lo deridono.La bicicletta vincerà quando diventerà più piacevole dell’automobile. Più desiderabile e generatrice di sogni. È nobile ma vano moltiplicare improbabili ciclovie o mettere a disposizione bici gratuite. Occorre un cambio di cultura e nessuno conosce con precisione la formula per innescarne uno; e se la sapesse, sarebbe padrone del mondo. Occorre scoprire il piacere dell’aria in faccia, della velocità morbida e controllata, del ronzio della catena tanto più fascinoso del tumb­tumb del motore a scoppio, del movimento circolare e ipnotico delle ginocchia, perfino delle gocce d’acqua sul viso perché il ciclista sa bagnarsi ma anche asciugarsi. Impossibile vivere in una città senza automobili? Verrebbe da dire: chiediamolo ai veneziani. Ma sarebbe ancora una risposta razionale. La bicicletta, se affermerà la sua evidente superiorità culturale, vincerà nel nome della bellezza e della poesia. Proviamo a visualizzare questa immagine di Philippe Delerm: «Due liceali affiancate attraversano un ponte a Bruges: è bicicletta». Traduciamo: due studentesse in sella, i capelli al vento, lungo i Bastioni. Proprio là dove una duplice fila di scatole di metallo rombano e puzzano e strombettano il loro inno al dio Pistone. Ma tutto dipende da ciò che faremo lunedì mattina. Prendo l’automobile o la bicicletta?Il ciclo-parigino Tronchet non ha dubbi: «Una città non deve essere pensata, ma sognata. Non giochiamo al ribasso. Si tratta del destino comune di milioni di persone. Assumiamoci le nostre responsabilità: sogniamo!». Tutto dipende dal nostro piacere: dove lo riponiamo, nel volante o nel manubrio, nella frizione o nei pedali, nella pesantezza o nella leggerezza? Tutto dipende, come sempre, da dove dimora il nostro cuore.
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