Più sintonia con la società
venerdì 13 maggio 2022

Come «italiano» e come «europeo», il presidente Mario Draghi ha rappresentato a Joe Biden quanto la «visione» della Ue sul conflitto stia «cambiando» e quanto il principale desiderio delle democrazie e delle società del Vecchio Continente sia la «pace».
Pur inserite nel contesto della salda collocazione atlantica dell’Italia e della Ue, della leale e solida partnership con gli Stati Uniti, del sostegno secondo il mandato parlamentare all’Ucraina, le dichiarazioni del presidente del Consiglio hanno sorpreso per la loro nettezza. Soprattutto chi si aspettava un bilaterale “guerrafondaio”. E sperava che l’asse Roma-Washington schiacciasse di fatto le voci di chi chiede di non alimentare il conflitto all’infinito e di sondare con sincera determinazione gli sparuti e contraddittori spiragli di dialogo esistenti.
La “risintonizzazione” del premier, per quanto non vada estremizzata e idealizzata, né tantomeno ridicolmente deformata in una chiave antagonista rispetto agli Usa, ha diversi livelli di lettura. Innanzitutto un livello europeo.
L’asse Roma-Parigi sta provando, faticosamente, a costruire una piattaforma “europea” che si candidi a guidare avvicinamenti e mediazioni.
Berlino vi sta progressivamente aderendo. L’iniziativa va condotta con prudenza, senza strappi, e senza mai rinunciare alla premessa etica di riconoscere un popolo aggredito che mantiene il pieno e libero diritto di indicare il proprio orizzonte. A convincere Italia, Francia e Germania lo spettro delle ricadute socioeconomiche del conflitto. Ricadute cui è sensibile anche Joe Biden, se è vero che un pezzo portante del bilaterale è stato il confronto serrato sull’inflazione. L’altro livello di lettura è italiano. Mario Draghi ha affrontato le prime settimane di crisi bellica sull’onda comune della solidarietà al popolo ucraino aggredito, sulla base della quale il Parlamento ha dato un ampio mandato al governo per un sostegno a 360 gradi, anche militare. Dopo, però, i partiti di maggioranza si sono riposizionati, soprattutto sul tema dell’invio delle armi a Kiev. Dapprima la Lega di Matteo Salvini, poi con più forza e con toni più incalzanti Giuseppe Conte e il “suo” M5s, hanno chiesto un ripensamento. Un pressing che ha anche – non si può essere ingenui – connotati strumentali e (legittimamente) elettorali, ma con il quale il presidente del Consiglio non può non fare i conti. D’altra parte anche il partito che più sostiene le mosse del governo, il Pd, trae sollievo da un premier che a Washington parla più di pace che di armi, perché anche nella comunità dem – il segretario Enrico Letta ne è consapevole – le certezze delle prime ore stanno lasciando spazi a dubbi, preoccupazioni, motivate obiezioni.
Ovviamente tutte le attese su un originale ruolo italiano per l’uscita dal conflitto – ruolo che tra l’altro Draghi pare voler tenere sotto traccia, quasi a non alimentare aspettative eccessive – andranno verificate nei prossimi giorni e nelle prossime scelte.

E soprattutto nei prossimi passaggi parlamentari, dato che Giuseppe Conte non rinuncia alla richiesta di mettere «nero su bianco» sia la strategia nazionale di breve e medio termine sia la modalità con cui continuare a fornire sostegno militare a Kiev. Di certo il Mario Draghi “risintonizzato” sulla domanda di pace della società italiana ed europea torna rafforzato da Washington, dove ha trovato non solo la conferma della propria credibilità internazionale, ma anche una narrazione nuova per provare a tenere unita la sua maggioranza, al netto di imprevedibili avventure che singoli leader volessero intraprendere – sfruttando il clima da fine legislatura – per provare a sottrarsi alla responsabilità di rispondere al disagio sociale ed economico. Rafforzato, Draghi, per interrompere la curva negativa iniziata con la partita del Quirinale e per completare il lavoro delle riforme che serve a non far precipitare il Paese in una crisi finanziaria. Rafforzato, eventualmente, per essere ancora a servizio delle istituzioni (dopo le politiche del 2023).

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