martedì 30 settembre 2014
Dopo i casi di Oscar Pistorius e del tedesco Markus Rehm, la discussione più generale riguarda oggi la possibilità per gli atleti mutilati di partecipare alle tradizionali competizioni gareggiando insieme agli atleti normodotati. (Vittorio A. Sironi)
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​Ai campionati europei di atletica leggera che si sono svolti a Zurigo dal 12 al 17 agosto di quest’anno non ha partecipato il campione tedesco di salto in lungo, il venticinquenne Markus Rehm. Con la misura di 8 metri e 24 centimetri si era aggiudicato, alcune settimane prima, il titolo nazionale. La ragione? L’atleta ha una protesi in fibra di carbonio sotto il ginocchio destro, dopo un incidente di sci nautico 14 anni fa in cui anni aveva perso il piede e parte della gamba. Secondo la federazione tedesca questa condizione trasforma un apparente svantaggio in un grande vantaggio rispetto agli altri atleti. Per questo non l’aveva convocato per partecipare alla sfida europea. Qualcuno ha già paragonato il suo caso a quello del corridore sudafricano Oscar Pistorius, portatore di una doppia protesi agli arti inferiori simile a quella dell’atleta tedesco. Qualche anno fa l’Associazione internazionale di atletica leggera aveva vietato a Pistorius di correre in competizioni con atleti normodotati, ma il tribunale al quale l’atleta si era rivolto contro questa decisione gli aveva dato ragione, aprendogli le porte alle gare dei campionati mondiali sino a farlo giungere all’Olimpiade.  «È una grande delusione», era stato il commento a caldo di Rehm alla notizia della sua esclusione, anche se aveva accettato la decisione senza discutere e non era ricorso alle vie legali come aveva invece fatto il suo predecessore sudafricano. «Esiste un ragionevole dubbio – aveva commentato il presidente della federazione tedesca Clemens Prokop – che i salti fatti utilizzando una protesi artificiale possano essere paragonabili a quelli effettuati con un’articolazione naturale».Si può pensare a una specie di "doping tecnologico"? La parte più curva della protesi – un insieme di fibra di carbonio e metallo – potrebbe determinare un "effetto catapulta" e spiegare così le super prestazioni sportive dell’atleta che la indossa? Alcuni esperti hanno avanzato seri dubbi su questa presunta spiegazione e la stessa federazione tedesca dei disabili sportivi aveva parlato di un passo indietro nella strada verso la parità.
Da disabile a super-abile: è questa lo sconcertante "cambio di classificazione"  che è stato applicato all’atleta tedesco Markus Rehm. Meno abile prima o più abile dopo, ma comunque sempre un "diverso" discriminato. Significative al riguardo le parole di Christian Reif, medaglia d’argento, che saltando con due gambe in carne e ossa, era arrivato secondo nella competizione nazionale: «Vantaggio o non vantaggio Markus è un vincitore perché ha mostrato a tutti di che cosa sono capaci gli atleti con disabilità». Un motivo in più per evitare comunque un’umiliante e pregiudiziale discriminazione di chi è (apparentemente) diverso. In ambito sportivo il problema, dopo i casi di Pistorius e di Rehm, segna l’inizio di una discussione più generale sulla possibilità per gli atleti disabili di partecipare alle tradizionali competizioni gareggiando insieme agli atleti normodotati. Bisognerà fare un’attenta riflessione al riguardo e stabilire regole generali valide a livello internazionale per evitare disparità di giudizio e di trattamento. Le diversità non dovrebbero pregiudizialmente costituire necessariamente un ostacolo o una differenza. Anche per i cosiddetti "diversamente abili". In proposito, un precursore illuminato della riabilitazione "a tutto campo", Don Carlo Gnocchi (1902-1956), aveva idee ben chiare. Continuamente egli sollecitava i suoi "mutilatini" disabili a essere ben consapevoli e quasi "fieri" della propria particolare condizione. Riabilitare significava per lui intervenire per "restaurare" con quei corpi dilaniati dalle mine o dalle malattie le persone umane in essi incarnate.
Restaurare era il verbo che indicava la capacità artigianale di «rifare le parti guaste o mancanti, ripristinare, ristabilire» ed egli lo applicava alla lettera non alla categoria delle cose, degli oggetti, ma a quella degli uomini, dei soggetti. La restaurazione della persona umana aveva per lui una duplice valenza: esprimeva da un lato la necessità – tecnicamente indifferibile – di recuperare le parti perse dell’individuo (un arto, l’abilità del movimento, la parola o l’udito, il pieno intelletto), ma significava anche dall’altro l’esigenza – umanamente indilazionabile – di incarnare la persona di Gesù Cristo in ogni uomo sofferente (nel corpo, nello spirito, nell’anima). La riabilitazione aveva dunque in sé una duplice inscindibile valenza: civile e religiosa. Era una vera e propria "resurrezione laica", destinata a ridare piena capacità fisica e completa umanità spirituale a chi era rimasto segnato dal male del mondo.
Per questo, sosteneva il prete-riabilitatore milanese, chi era diventato un mezzo corpo non in grado di camminare perché privo di gambe o chi era rimasto un tre quarti di corpo perché privo di una mano o di un piede non solo non doveva farsi compatire, ma doveva dimostrare a se stesso e agli altri che la propria "abilità residua" rappresentava un’opportunità per evidenziare una grande capacità, utilizzando lo sport come un  modalità di confronto con i "normali" per dimostrare di non essere diversi, né inferiori, né meno abili di loro.  Una lezione di vita e di umanità, che trasmette un messaggio non solo di grande attualità ma anche di profondo significato profetico, per evitare che la diversità (qualunque sia) si possa trasformare in discriminazione.
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