lunedì 13 aprile 2015
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Tra le iniziative annunciate dal governo è quasi passata in secondo piano quella dell’approvazione di una legge sulla rappresentanza sindacale. Sembra questa, dalle ultime notizie, la modalità che l’esecutivo ha scelto per regolare le relazioni industriali nel nostro Paese. Una proposta non certo nuova, sia perché se ne discute a partire dalla mancata approvazione dell’art. 39 della Costituzione, sia perché nelle prime linee guida del Jobs Act del lontano gennaio 2014 la legge sindacale era già all’ordine del giorno. Scomparsa per un periodo e tornata sotto i riflettori nel famoso incontro tra Renzi e i sindacati quando, riaprendo la "sala verde" di Palazzo Chigi, il premier sfidò le confederazioni proprio su questo tema, la legge sindacale sembra essere diventata una priorità. Quando si parla di legge sulla rappresentanza non si discute solamente una iniziativa normativa volta a regolare i rapporti di forza tra sindacati, ma è in gioco un intero modello di società e democrazia. Significa infatti intervenire nel rapporto tra parti sociali e Stato che, nello scenario frastagliato italiano, non è certo una decisione neutra. È difficile immaginare che una norma possa ricostruire a tavolino l’unità sindacale rottasi tempo fa, soprattutto in un panorama come il nostro, che è stato da sempre caratterizzato dalla contrapposizione dialettica tra due modelli: il sindacato di classe e il sindacato dei soci. Uno scenario complesso quindi, nel quale una affrettata soluzione normativa non può che contribuire a generare scontri e divisioni, non certo a risolvere i problemi che, è importante riconoscerlo, le relazioni industriali italiani hanno. La volontà del governo, a quanto è emerso sinora, non sembra coerente con la visione del lavoro sulla quale è costruito, almeno nelle intenzioni, il Jobs Act, ossia quella di una maggior centralità della persona e delle sue relazioni. Le esperienze internazionali insegnano, infatti, che regolare con un "sistema maggioritario" la rappresentanza sindacale premia solitamente i sindacati massimalisti, con una conseguente centralità non più della persona ma della "classe". Categoria che presuppone l’incapacità dell’azione innovatrice della persona, che deve per questo essere aiutata, dallo Stato o da un sindacato unico e nazionale, nell’affermare i propri diritti. Lo stesso panorama che si sta delineando dopo l’approvazione del decreto n. 23 vede una rinnovata centralità dei rapporti tra le parti laddove i contratti collettivi prevedono ancora tutele che il nuovo contratto a tempo indeterminato non garantisce più, una su tutti la reintegra prevista dall’articolo 18. Difficile non leggere questo progetto nell’ottica della volontà di disintermediazione el rapporto tra individuo e Stato che sta caratterizzando i rapporti tra governo e parti sociali. Ma così vi è il rischio di confondere un sindacato spesso vecchio e inadeguato con una filosofia politica che nega l’apporto centrale della società nel processo democratico. Negare questo significherebbe sottrarre la persona, e il lavoratore in primis, alla sua apertura originaria alla relazione con gli altri, convinti che tutti i bisogni e le necessità possano giocarsi in un unico canale tra cittadino e Stato. Si tratta quindi di decidere tra il corporativismo di un sindacato unico, progetto tanto utopico quanto miope di omogeneità del lavoro contemporaneo, e un modello di democrazia pluralista e sussidiaria che possa consentire una vera rappresentanza, a partire dalle singole professioni e mestieri. Negare tale democrazia significherebbe negare al lavoratore di poter scegliere il proprio modello di rappresentanza, in uno scenario di dittatura della maggioranza che nulla avrebbe a che fare con la dinamicità che il mondo del lavoro oggi chiede. Di fronte a questa sfida, e in una fase di profonda crisi dal punto di vista dei "numeri", il sindacato è obbligato a riflettere se considerarsi come un soggetto sociale che nasce e si alimenta delle relazioni tra persone, e quindi sempre aperto all’evoluzione della società, o un organismo corporativo e burocratico che governa centralmente la contrattazione e la rappresentanza. È evidente quindi che la rivoluzione annunciata dal Jobs Act verso la centralità della "persona che lavora" non può che passare da questo snodo, altrimenti le energie nuove di cui tanto abbiamo bisogno resterebbero ingabbiate in schemi vecchi e mortificanti. Non si tratta di una questione di secondo piano, ma di una scelta strategica se davvero si punta finalmente a modernizzare il mercato del lavoro partendo dalla realtà dei fatti, e non dalle ideologie.
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