martedì 19 aprile 2011
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C'è un clima diffuso di smarrimento e di sgomento nella stagione socio-politica che sta attraversando il nostro Paese. È un disagio che scaturisce da un cortocircuito tra politica e società, che dà luogo a una radicale questione morale. Da una parte c’è l’incalzare di problemi seri e impellenti, con cui siamo costretti a misurarci: la pressione massiccia di migranti dal Nord Africa ai nostri confini, le sfide della globalizzazione alla produttività delle imprese e alla sicurezza del lavoro, le sacche di disoccupazione e inoccupazione che, unite alla diminuzione dei poteri d’acquisto delle famiglie, allargano i cordoni della povertà, la crisi endemica e stagnante dell’amministrazione della giustizia, le insufficienze del welfare nel campo della sanità e della previdenza, il disagio del mondo della scuola e dell’università, l’incuria del patrimonio artistico e culturale, il problema delle scelte energetiche acuito dal disastro atomico di Fukushima, il prosperare delle ecomafie nel più ampio spettro della criminalità organizzata. Dall’altra assistiamo a un avvitamento della politica su se stessa, indice di un distacco dalla società, vale a dire dalla gente, che dalla politica si aspetta risposte, contributi, progetti. E invece assiste, più sgomenta che indignata, a un dramma del vaniloquio e della rissa. Il vaniloquio dei talkshow televisivi e, purtroppo, ormai anche delle aule parlamentari, dove non si sa più che contenuti e attendibilità hanno le parole: politici che parlano tanto, ma comunicano poco, per deficit di una sintassi e di una semantica condivise. Ognuno arroccato sul proprio fortino di parte e di partito, incurante del tutto, dell’intero, dell’unum, della comunità; rinfacciandosi da sponde avverse le stesse accuse, le stesse ignavie, le stesse omissioni. Tutti consapevoli delle deficienze e delle necessità del Paese, spietati anche nelle analisi, ma usate come schegge da rinfacciarsi contro, in una spirale di invettive senza assunzioni di responsabilità. Così il vaniloquio degenera in rissa, che trasforma la dialettica democratica in rancori, ostilità e tafferugli politici, a danno di quella solidarietà e cooperazione verso cui deve convergere ogni contesa e competizione democratica, soprattutto in presenza di emergenze nazionali. Il che pone in termini morali il problema politico. Ciò significa che in tutto questo non è in gioco anzitutto e solo il prestigio e il credito di partito o di coalizione. È in gioco l’onestà e la rettitudine morale delle persone deputate alla rappresentanza politica e all’amministrazione della cosa pubblica. Così da non doversi misurare soltanto e prima di tutto con indici di gradimento e sondaggi demoscopici, che attivano risposte di strategia e interessi di partito; ma con criteri di onestà e rettitudine che attivano risposte di giustizia e vincoli morali. Criteri comandati in campo sociale e politico dal principio del bene comune: il bene della polis, di quel noi-tutti che individui, famiglie e gruppi intermedi formano unendosi in comunità politica. Per un politico la sensibilità morale è, insomma, doppiamente esigita. Non solo in quanto individuo in società, come un qualunque altro cittadino. Ma in ragione della dimensione pubblica della sua persona e delle sue azioni, per cui le responsabilità non sono meramente penali, ma primariamente etiche (così da sussistere e permanere indipendentemente dalla loro eludibilità giudiziaria). Per questo la gente si aspetta dai politici non solo competenza e professionalità, ma coerenza e dirittura morale. Attesa che non va delusa. Ne va della credibilità della politica, di cui i politici devono farsi carico per uscire dallo stato confusionario in cui versa la politica e arginare il disincanto, la sfiducia e l’allontanamento della gente, dei giovani prima di tutto, dalla politica.
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