mercoledì 8 marzo 2017
Nell'area è corsa al riarmo. Alta tensione tra missili e flotte. E spesa militare record
Una nave portaerei della Marina cinese (Reuters)

Una nave portaerei della Marina cinese (Reuters)

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Tira aria di crisi in Estremo Oriente. I quattro missili nordcoreani sparati avant’ieri nel mar del Giappone stanno innescando reazioni a catena. Donald Trump promette risposte muscolari, in attesa dell’ennesima riunione al Consiglio di sicurezza. Tutte le opzioni sono sul tavolo, perché Pyonyang sta affinando la precisione dei suoi vettori da 1.000-3.000 km di gittata. Nel mirino ci sarebbero le basi americane in Giappone e Corea del Sud. Ogni mossa nell’area rischia però di alterare precari equilibri strategici, soprattutto quando entrano in gioco pedine ultrasensibili come i sistemi antimissilistici americani Thaad. La batteria di 48 intercettori attivata nel sud della Corea ha il merito di risolvere solo parzialmente i problemi difensivi di Seul e al tempo stesso di mandare su tutte le furie Pechino. Xi Jinping aveva già protestato vibratamente il 5 settembre scorso, diffidando la presidenza sudcoreana dall’accogliere lo scudo. Invano.

I cinesi sentono montare la sindrome da accerchiamento. Temono che lo scudo crei un precedente nella regione, a pochi chilometri dai loro confini. Evocano un sabotaggio (inverosimile) alla credibilità del loro deterrente strategico. Ma quei sistemi non possono nulla contro i missili intercontinentali cinesi. Molto più invadente è il radar associato, che consentirebbe agli americani di scrutare in profondità non solo in Corea del Nord, ma anche in parte del territorio cinese, per un migliaio di chilometri. In ballo ci sono alcuni segreti militari, come le posizioni delle rampe mobili dei missili cinesi. È come una lotta fra il gatto e il topo. Pechino minaccia reazioni. Potrebbe varare sanzioni economiche indirette contro Seul, rea di concedere troppo agli americani, senza tener conto delle sue percezioni. La verità è che fra Washington e Pechino il malinteso è totale. Pochi giorni fa, un think tank molto vicino al Pentagono (Csis/Amti) ha rilanciato i timori americani per l’espansionismo marittimo cinese. Le immagini satellitari del centro di ricerca confermerebbero l’ulteriore militarizzazione delle Spratly, un arcipelago di un centinaio di isolotti, atolli e scogli, fra il Vietnam e le Filippine. Vi sarebbero spuntati bunker in cemento armato, con tetti retraibili, ampi abbastanza per alloggiare batterie contraeree da 125 km di gittata.

Ufficialmente, la Cina garantisce libertà di navigazione e sorvolo nell’area. Ma starebbe meditando una revisione profonda di una vecchia legge sulla sicurezza del traffico marittimo, adottata nel 1984. Una mossa che non sorprenderebbe, vista la politica aggressiva dell’Impero di mezzo, che sta scompaginando alleanze, sovvertendo sentenze internazionali e galvanizzando una corsa agli armamenti senza pari. La situazione delle Spratly è paradigmatica. Ci sono continui incidenti, per ora circoscritti alle guardie costiere. Ma su quelle isole, fra le più contese al mondo, si fronteggiano ormai 48 avamposti vietnamiti, 8 filippini, 5 malesi e uno taiwanese. Un mix esplosivo che tradisce la centralità strategico-militare dell’area, ricchissima di idrocarburi e pesce, lungo una rotta imprescindibile verso lo stretto di Malacca e l’oceano-mondo. Il numero uno della diplomazia americana, Rex Tillerson, promette di alzare la guardia. Si è spinto perfino a evocare pericolosi blocchi navali. Dal 2015 a oggi, le pattuglie di navi americane nell’area si sono fatte più intense. L’ultima il 25 febbraio scorso, con la porterei Vinson e la sua scorta che si sono spinte a meno di 22 miglia dalle isole 'nazionalizzate'. Sono tambureggiamenti inquietanti, che rischiano di incrinare la stabilità strategica della regione Asia-Pacifico. Quando Trump promette piani di neoinvestimento militare, pensa anche alla Cina. Ha mandato i bombardieri strategici B-1B a Guam, costosissimi da far volare. E finanzierà la costruzione di una settantina di navi da guerra, in primis sottomarini. Vuole almeno 350 navi di prima linea, perché la Marina è il 'perno' del rischieramento in Asia orientale.

Un 'pivot' che Obama aveva avviato in punta di piedi, nonostante le sollecitazioni incessanti del Comando del Pacifico, non pago delle semplici pattuglie navali. Quelle che in gergo militare si chiamano Fonops (Freedom of navigation operations), e che servono a ribadire il principio di libera circolazione in acque internazionali. Una riposta muscolare alle ultime mosse di Pechino. Xi Jinping ha appena preteso un nuovo stato maggiore centrale, trait d’union fra la (sua) Commissione militare centrale e gli stati maggiori di forza armata. Una struttura più snella della precedente, che favorisce una reazione molto più rapida alle crisi, soprattutto oltremare. Anche le sette regioni militari classiche sono acqua passata. Oggi ci sono cinque comandi di teatro che, fuori dagli eufemismi, sarebbero veri e propri 'teatri di guerra' potenziale. La Commissione militare centrale si è vista dotare perfino di un 'dipartimento per le operazioni oltremare'. Una misura che punta a coordinare e velocizzare le proiezioni di truppe 'fuori area'.

Per gli esperti americani Kenneth Allen, Dennis Blasko e John Corbett ci sarebbe addirittura un ordine di priorità fra i penta-teatri, perché l’Est e il Sud godrebbero di una primazia rispetto all’Ovest, al Nord e al Centro. E guarda caso i teatri Est e Sud hanno competenza sui contenziosi di sovranità con Giappone e Taiwan nel mar Cinese orientale e sovrintendono allo scacchiere del mar Cinese meridionale. Un cambio di linea strategica che coincide con le mega-iniziative economiche di una via marittima della Seta per il XXI secolo nell’oceano Indiano e con l’omologa terrestre euroasiatica, entrambe tese a massimizzare l’influenza cinese in Africa e in Europa. L’espansione navale cinese preluderebbe inoltre alla conquista di spazi marittimi in acque profonde, distanti da casa, e al presidio permanente di zone che dovrebbero garantire una profondità strategica mai vista prima. Soldi permettendo, c’è in gioco il predominio nell’Oceano Indiano, che spiega in parte le politiche di Pechino nel mar Cinese meridionale, e che si somma alle ambizioni di sempre lungo l’asse Taiwan-Senkaku-Ryukyu. Ma un’altra direttrice di espansione si sta materializzando anche nel Pacifico orientale, oltre la linea che corre fra gli arcipelaghi di Izu e di Ogazawara. Basi e punti d’appoggio oltremare stanno spuntando in Pakistan, a Gibuti e alle Seychelles. Dal 2008 a oggi, la Cina ha inviato qualcosa come 22 gruppi navali e 60 unità fra Aden e le acque somale, scortando in funzione antipirateria 6mila vascelli. E le sue navi non hanno disdegnato nemmeno gli scali amichevoli nei porti europei, nella più classica delle diplomazie navali.

Quanto ai colpi di mano assestati allo status quo nel mare del Sud, il minimo che si possa dire è che sono illegali agli occhi del diritto del mare, ma che si inseriscono in un quadro strategico e dottrinario chiarissimo, mesto preludio a operazioni anfibie di intensità e ampiezza inedite. Un ventaglio in cui rientrano Taiwan o, forse, su scala minore e più realistica le isole di Matsu e Jinmen, per non parlare dell’isola di Taiping, nel profondo sud del mar di Cina. A Pechino, le intenzioni sono ormai palesi. Xi Jinping ha arringato i suoi uomini all’Università nazionale della difesa, mettendo l’accento sull’urgenza di preparare i comandi alla guerra interarma e interforze. Xi ha chiesto ai suoi epigoni uno sforzo dottrinario innovativo e originale.

Il Global Times aveva già anticipato che l’undicesima riforma delle forze armate avrebbe privilegiato soprattutto la marina, che sta svolgendo esercitazioni molto più complesse di un tempo. Vi partecipano ormai sistematicamente unità delle tre flotte, ben al di là della prima catena di isole, come nel dicembre 2014, quando una grande esercitazione si è tenuta intorno al mar del Giappone. Ma il salto di qualità vero e proprio si è registrato nel luglio 2015, perché fra il 26 e il 27 di quel mese un centinaio di navi ha fatto rotta sul mar Cinese meridionale appoggiando operazioni simulate di sbarco dei 'marines' cinesi. In quei frangenti c’è stata una sinergia inedita con la Forza missilistica, convenzionale e nucleare, che ha testato le capacità dei nuovi missili anti-portaerei. Manovre reiterate più e più volte, anche nel luglio 2016, con l’Est e il Nord a giocare la parte di un gruppo aeronavale statunitense e il Sud a combatterlo. Quando il tribunale dell’Aja ha respinto le rivendicazioni cinesi sui mari del sud, Pechino ha risposto picche, spedendo navi e jet fra le isole di Hainan e le Paracels.

Le tre flotte si sono coordinate nuovamente per simulare operazioni di controllo dello spazio aereo, di combattimento di superficie e di guerra sottomarina. Uno schiaffo al diritto internazionale. Sono entrati in azione anche gli ultimissimi 'gioielli' della Marina, pronti a lanci di missili che hanno fatto il giro della popolarissima CCTV e di molti media cinesi. Un’enfasi mediatico-nazionalista replicata a settembre, in occasione delle manovre sino-russe Joint Sea 2016, svoltesi tanto per non cambiare nel mar Cinese meridionale, dove Pechino sta irretendo perfino vecchi alleati occidentali, dalla Tailandia alle Filippine. Un arrembaggio che sta galvanizzando gli investimenti militari in tutta la regione, ormai più profittevole del Medioriente per i colossi dell’armamento mondiale. L’Australia, l’India, il Giappone e il Vietnam stanno spendendo come non mai per le flotte. Percepiscono la Cina come aggressiva e revisionista. E riarmano, moltiplicando le cooperazioni militari. Tokio ha già spedito pattugliatori aeromarittimi nelle Filippine, mentre il Vietnam ha aperto le sue basi alle navi indiane e statunitensi. Una svolta copernicana, segno di uno scenario in rapido deterioramento. Meglio non soffiare sul fuoco. L’incendio è dietro l’angolo.

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