martedì 22 marzo 2011
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È un paradosso, ma chi si oppone all’in­tervento sotto egida Onu per proteggere i civili libici – e di conseguenza contro il regi­me di Gheddafi, inutile nasconderselo – sem­bra vittima dell’antica sindrome del gendar­me. La tentazione di imporre un ordine, di in­casellare ogni Paese in una rigida scacchiera, di non tollerare mutamenti che aprano sce­nari di incertezza è infatti un retaggio del mondo bipolare della Guerra Fredda, o del­l’idea unipolare dell’iperpotenza americana alla fine della storia, come ci si era illusi dopo il crollo del Muro di Berlino. L’oggettivo ridimensionamento del ruolo a­mericano, assecondato da Obama, apre oggi spazi tanto imprevisti quanto vasti per som­movimenti di amplissima portata, a partire dal Maghreb e dal Medio Oriente. Vedere in qualunque rivolgimento politico l’opportu­nità per una presa del potere da parte di al-Qaeda o in ciascuna sollevazione popolare un’insidia per gli interessi delle democrazie consolidate – vuoi economici, vuoi legati al­le migrazioni – pare la risposta a un riflesso che non vuole fare i conti con un quadro mu­tato e che non necessariamente sarà peggio­re del precedente.Certo, il cambio di atteggiamento verso il rais di Tripoli è riuscito infine a essere tanto re­pentino quanto tardivo. Tuttavia, ha fatto o­nestamente i conti con la storia in marcia: u­na rivolta interna che ha raggiunto massa cri­tica e convinzione nella possibilità di un suc­cesso grazie al contagio positivo delle rivolte in Tunisia e in Egitto. E lo stesso intervento mi­litare in Libia può non rispondere a una logi­ca di puro cambio di regime a uso di qualche interesse particolare quando si limitasse dav­vero a impedire il massacro di inermi cittadi­ni, lasciando poi alle logiche interne del Pae­se lo sbocco finale della crisi.La logica del gendarme alle incognite prefe­risce l’ingessatura di situazioni incancrenite, il pugno di ferro alla dinamica delle società, la quale può o deve – secondo i punti di vista – essere agevolata nella direzione di maggio­ri aperture democratiche e di fondamentale rispetto delle minoranze, ma che non può (e forse non deve) venire necessariamente gui­data dall’esterno. E spesso, oggi, non può es­sere guidata perché non esiste oggettivamente un singolo attore che abbia volontà e capacità di incanalare lungo sponde precostituite il fiume impetuoso del cambiamento. Nel ribollente scenario mediorientale, che pri­ma avevamo salutato come culla di un na­scente movimento di modernizzazione, a­desso rischiamo di vedere soltanto i rischi di un’involuzione fondamentalista e una sor­gente di caos che porterà nuovi immigrati sul­le nostre coste. Magari con un crescente pe­ricolo di terrorismo. Le dinamiche avviate hanno bisogno di tempo e di respiro, i loro e­siti non sono necessariamente scontati. Ciò che possiamo imparare, mentre ancora i no­stri aerei pattugliano i cieli libici, è che lo lo­gica del gendarme, dell’ordine e dell’oppor­tunismo non risulta più facilmente pratica­bile. Un mondo multipolare faticherà – ad esem­pio – a tenere a bada un Iran aggressivo e sem­pre più vicino al dotarsi dell’arma atomica, ma potrà anche lasciare emergere dalla ca­micia di forza degli schieramenti quegli spi­ragli che permettono il risveglio di nazioni che sembravano condannate a rimanere sot­to il giogo di autocrati utili solo a chi faceva affari con loro. Ecco allora che evitare in fu­turo abbracci interessati e imbarazzanti con i leader che opprimono i propri popoli è la necessaria e coerente continuazione della scelta di intervenire per fermare Gheddafi. E che tale rifiuto sia la premessa per nuovo or­dine, frutto sofferto non soltanto di ingeren­ze con secondi fini e di velleità di mettere la storia al guinzaglio.
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