Numeri amari sogni e bisogni
sabato 2 marzo 2019

Il paradosso del non esaltante 0,9% di crescita con cui – certifica l’Istat – abbiamo chiuso il 2018, è che rischiamo di doverlo rimpiangere. Il deficit si colloca al 2,1% e, soprattutto, il debito pubblico segna un primato storico. Non sono certo delle gran premesse per l’«anno bellissimo» evocato dal premier Conte. Il governo continua a predicare pazienza e tempo, in attesa che si dispieghino le "magnifiche sorti" delle due misure-chiave dell’ultima manovra, in particolare del Reddito di cittadinanza. Anche se bisogna essere degli ultras dell’ottimismo per credere che possa dare chissà quale spinta al Pil un intervento dell’impatto di 6 miliardi quando non l’ha data nemmeno il bonus renziano degli 80 euro che, coi suoi noti (e qui assai sottolineati) limiti, nel circolo economico aveva immesso ben 10 miliardi l’anno.

Il consuntivo dell’Istat rappresenta l’ennesimo campanello d’allarme in un quadro già denso di ombre. Inclusa una disoccupazione giovanile indicata al 33%, la più grave d’Europa dopo la Grecia. Eppure, tanti indizi negativi continuano a scivolare addosso agli esponenti governativi come acqua sul marmo. Le ultime riprove si sono avute con le reazioni, assolutamente generiche, al "Country Report" della Ue. Nella relazione sugli indicatori del Bes, poi, il ministro del Tesoro Tria ha ripetuto che il Reddito e le pensioni anticipate con "quota 100" porteranno «a una riduzione delle diseguaglianze». Un loro calo è possibile, e andrebbe ben accolto in un Paese dove gli squilibri non mancano. Resta però una considerazione di fondo: avere minori diseguaglianze in un Paese sempre più indebitato e in cui tutti cresciamo di meno è, e sarebbe, una consolazione relativa. Un conto scaricato sulle generazioni più giovani.

L’esecutivo Conte si trova a vivere sulla propria pelle una contraddizione: è arrivato al potere promettendo «il cambiamento» dopo lunghi anni di recessione che hanno minato nel profondo l’economia e la società italiane, ma si trova a operare in un contesto – anche internazionale – che non agevola le grandi svolte. Quelle che occorrerebbero in almeno 4 campi dai quali dipende il nostro avvenire: gli investimenti, la demografia, la "revisione" dell’Europa e il debito pubblico. Dopo le scelte nette operate sul Reddito e su "quota 100" (al di là del giudizio che se ne ha sugli effetti, certo diversi fra loro), ne servirebbero altre in questi settori. Invece, dopo le incertezze già viste sul piano dell’ex ministro Savona per un rilancio delle infrastrutture, sulla Torino-Lione stiamo assistendo ormai a un balletto che dir sconcertante è poco. Fino al supplemento d’analisi che, come niente fosse, riduce di colpo da 7 a 2,5 miliardi l’asserito "sbilancio" negativo dell’opera.
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Segnali non tranquillizzanti, insomma, in attesa che diventino realtà gli annunci fatti, come quelli sui (sacrosanti) interventi per il dissesto idrogeologico e sulle (sempre attese) semplificazioni. Sulla Tav come sui conti pubblici, già offuscati dal rischio potenziale di una manovra-bis, si assiste così a una lenta inerzia che sembra avere un unico obiettivo: far scivolare le scelte che contano a dopo le elezioni europee del 26 maggio.

Nel mentre, in un guazzabuglio di difficile interpretazione, si prosegue a confezionare un libro dei sogni: l’ultima novità è lo 'choc fiscale' da 20 miliardi delineato (in un’intervista al 'Sole24Ore') dal sottosegretario leghista Armando Siri, con una Flat tax al 15% per le famiglie con redditi fino a 50mila euro. Magari! Propositi lodevoli, ma che si scontrano sempre con un dato: come finanziarli, quali voci di spesa tagliare nel bilancio dello Stato,quali poste ri-orientare? Nulla viene mai detto al riguardo. E, allora, meglio ribadirlo: scaricare costi sulle generazioni future non potrà mai essere la via maestra.

La maggioranza giallo-verde spera, in un mutato quadro europeo dopo le elezioni, di evitare la Manovra in corso d’anno, per non trovarsi nella scomoda posizione di chi è costretto a correggere se stesso. Ma, dopo il sofferto accordo negoziato con la Ue su un deficit 2019 al 2,04%, a oggi tutto fa pensare che sarà un successo non sfondare il 2,5%. Va considerato pure che il 2018 è l’ultimo anno con la spesa per interessi in discesa. La navigazione nei prossimi mesi sarà molto difficile. Il governo potrà forse riuscire a evitare la correzione dei conti, ma più che altro sarebbe importante cominciare a delineare, nel prossimo Def (Documento di economia e finanza) di aprile, una manovra 2020 fatta con i piedi per terra.

Con priorità chiare e senza alimentare illusioni per gli italiani di oggi, ma dando qualche certezza in più per il benessere futuro. Un supplemento di progettualità è benvenuto in un’Italia che resta fanalino di coda nella Ue. Sogni e bisogni degli italiani mertano risposte responsabili, cioè una scossa utile e sostenibile.

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