domenica 19 maggio 2013
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Chiacchiere, pettegolezzi, innocuo passatempo delle comari al mercato, per antico proverbio, o delle lavandaie al fontanile, per perduta memoria. A dire degli altri, a tagliar panni. Oggi, più modernamente, tra cellulari onnipresenti e instancabili, l’infinita alluvione di blog e di chat, il cicaleccio dei talk show televisivi, tra cose serie e serissime s’intende, ma intervallate da un perenne pettegolezzo in diretta. E i giornali, anche, i 'gazzettini' per definizione, con alcune testate periodiche caparbiamente dedicate al pettegolezzo professionale. A dir cosa? A dir male, si capisce, se no che gusto c’è. Quando la città ne parla, il pepe è come si sparla. È più goloso così, signori, che misurare le parole e i pensieri; il vocabolario del pettegolezzo, poi, quando s’infila nell’imbuto della maldicenza, è così piccolo libro, povero e salace, che si impara subito; poi lo contagia la volgarità, poi lo travolge un lessico da escrementi, negli scontri sul video o sul web, un lessico accessibile ad ogni ignoranza. Che goduria. Innocuo?La maldicenza «ha il taglio più affilato che la spada e la lingua più velenosa dei serpenti» (Shakespeare). Fin nel Libro sacro se ne parla, vi è custodita la sapienza che «la tramontana porta la pioggia, la lingua maldicente provoca lo sdegno sul volto» (Prov. 25, 23). E basta l’esperienza comune, nella vita familiare e nella vita sociale, per sapere che le ferite della lingua, della parola detta e della parola scritta, sono micidiali, vanno al cuore. Quando il pettegolezzo trascorre in maldicenza e scivola in obliqua calunnia, si offusca dentro una nuvola nera, si getta in braccio quasi senza capirlo al nero dominio della menzogna. Qualcosa che sa di morte, che odora di putredine. Qui diventiamo seri, infine, e inquieti. Noi che parliamo e scriviamo.Noi che leggiamo ogni mattina nelle rassegne stampa il catalogo quotidiano dei vaniloqui, prima di faticare a capire dove sta l’onestà informativa e dove il perditempo, e dove la malizia, e dove l’inganno, e dove la campagna denigratoria che pugnala l’onore d’un innocente. Noi che scriviamo e parliamo, in primis, e dovremo render conto d’ogni inutile parola. Ieri il papa Francesco, con quella disarmante semplicità conversativa che va al cuore delle cose e degli uomini, ha detto che c’è un modo di immischiarsi nella vita degli altri che muove da un sentimento negativo (di paragone e di invidia) cui si affianca la chiacchiera «che spella il prossimo». E una progressiva discesa per i torbidi gradini, il primo dei quali è la disinformazione (la verità dimezzata, la parte astutamente celata) il secondo la diffamazione (la macchia rivelata senza ragione, per la gogna e la vergogna dell’uomo bersagliato) e il terzo la calunnia (il falso che uccide). Sullo sfondo resta disegnata la dignità di ogni uomo, virtù e difetti e colpe e speranze, verso il quale la relazione non può essere orientata alla competizione distruttiva.Ciò che la fantasia delle chiacchiere e delle ombre fa dell’altro – un concorrente ostile, un avversario da denigrare, un invidiato da scalzare – segna il diaframma fra l’intrusione malevola nella sfera personale e la vicinanza rispettosa, pur nella serenità e obiettività del giudizio, e quando occorre del dissenso. Non è una questione di 'buone maniere', insufficienti a sconfiggere il verme d’invidia, le 'cattive abitudini'; è il cuore che conta, che decide. Non per galateo, ma per Vangelo.
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