domenica 28 aprile 2013
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«Immaginate di essere alto cinque piedi e due pollici...». A parlare è il Giudice Selah Lively, sepolto sulla collina di Spoon River. A raccogliere le sue confidenze è Edgar Lee Masters, il poeta americano, nella sua celebre Antologia, diventata popolare in Italia quando, nel 1972, Fabrizio De André ne trasse ispirazione per il suo album. Proviamo dunque a immaginare. Di dover guardare il mondo dal basso in alto, mentre gli altri non smettono «di burlarsi della vostra statura e deridervi». Ma, dopo notti insonni di studio indefesso, un’applicazione feroce e qualche scaltrezza, divenuto magistrato, «tutti i pezzi grossi che vi avevano schernito sono costretti a stare in piedi davanti alla sbarra e pronunciare 'Vostro Onore'. Be’, non vi par naturale che gliel’abbia fatta pagare?». La traduzione è di Fernanda Pivano. De André, nella sua versione canora, ha aggiunto dettagli pruriginosi e il finale crudele – gran lavoro per il boia – che Lee Masters lascia sospeso. È la rivincita, o la vendetta, o il giusto contrappasso di un piccoletto, un bassino. Un «nano». E dopo tanti rospi da ingoiare si spiega, anche se moralmente non si giustifica, lo spirito di rivalsa. Difficile addolcirsi, più facile inacidirsi. La parabola del Giudice Selah Lively sale alla mente dopo le ennesime, recenti ingiurie indirizzate a Renato Brunetta da due personaggi di spessore, il premio Nobel Dario Fo e il fondatore di Emergency Gino Strada. Che hanno evocato seggiolini e sgabelli per «metterlo all’altezza» della situazione e un «cervello ancora più piccolo» (Fo); e l’hanno definito «esteticamente incompatibile con Venezia» (Strada). Anche Bossi non fu tenero («Nano, non romperci i...»), ma gli epiteti volgari e sconci hanno sempre fatto parte del personaggio. È curioso. Nell’era del politicamente corretto nessuno ormai si sogna di gettare discredito su un individuo sottolineandone il colore della pelle (per sempio, nera), le origini territoriali (per sempio, il sud o la campagna) o l’orientamento sessuale (per sempio, gay). Se ciò accadesse, scatterebbe immediata l’esecrazione. In qualcuno sincera, in altri ipocrita. Ma è ormai una sensibilità assodata: certe cose non si fanno e neppure si dicono. Con la statura invece si può. Chi è basso può essere dileggiato senza che ci sia alcun sussulto d’indignazione. Tutt’altro. Anche chi condanna Fo e Strada, nel frattempo sorride. Nessuno rivendica una ridicola bonifica del vocabolario. Non chiamateci «diversamente alti», per cortesia. Non inventiamoci neologismi come «bassofobia» e a nessuno venga in mente d’organizzare uno Short Pride, con gli under 165 centimetri in orgogliosa marcia compatta. Ma un ripensamento sì. Giustizia. Tolleranza. Fine della discriminazione. Sui tram, qualche maniglia più lunga. Nei supermercati, qualche sgabello per accedere allo scaffale alto. Ma soprattutto misurate le parole. Deprecate i bassi istinti e le basse idee. Ma lasciate stare le basse stature. Anche perché non sapete quale giudice potrebbe capitarvi.
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