Non possiamo lasciarli soli
venerdì 17 dicembre 2021

Voleva riprendere in mano la sua vita, ritornare indietro, uscire dalla gabbia. Era stanco di nascondersi, fuggire alla vista delle forze dell’ordine e dei nemici. Aveva paura di essere ucciso o di finire in galera. Sapeva bene che i capi non glielo avrebbero permesso. Da quella trappola non te ne esci a cuor leggero: sai tante cose, conosci nomi, parentele, alleanze, situazioni, misteri che, tante volte, sfuggono agli stessi inquirenti. Sapeva tutto il povero pusher del rione Sanità, ma non ce l’ha fatta a continuare: «Ho sbagliato, mi pento, prometto che sto zitto, ma lasciatemi andare». Niente da fare, 'quelli' non perdonano. La camorra, con i suoi mille addentellati, è anche questo. Gli affiliati si chiamano 'famiglia', si baciano sulle labbra, si giurano fedeltà mentre tra essi regnano diffidenze, cinismo, invidie, tradimenti.

Tu sei solo una pedina e in quanto tale sarai gettata ai rovi quando non servi più. Una pedina guardata a vista quando ti fai venire gli scrupoli di coscienza, ti commuovi, t’intenerisci. Tu devi obbedire ai capi, e basta. Devi dare dimostrazione di essere all’altezza della situazione; devi pretendere il rispetto dagli amici, dal quartiere, dai parenti, dai nemici. Devi essere attento, guardingo, svelto, in grado di far fronte a eventuali agguati. Devi sapere, soprattutto, che, qualsiasi sia il tuo ruolo, fosse anche marginale, sei entrato a far parte di un sistema.

Che ti tiene in pugno. Ma lui, il povero pusher pentito, da quella gabbia voleva uscire a ogni costo. Si sentiva oppresso, schiacciato, condannato a morte. Voleva vivere. Magari fare la fame, ritornare a comprare scarpe e vestiti sulle bancarelle dei mercati rionali, abitare nei vecchi, umidi bassi, ma con dignità. Lo aveva chiesto ai capi, li aveva pregati, implorati. Ma loro, i capi, questo non potevano permetterlo. La sua uscita avrebbe procurato una falla che a tutti i costi non si doveva aprire. Era diventato pericoloso, il pusher trentunenne. E lo hanno punito. Colpirne uno, per terrorizzarli tutti. Gli hanno dato fuoco dopo averlo cosparso di benzina la sera del 6 dicembre scorso, nell’androne di un portone, nel popoloso quartiere Sanità. Disumani. Forse, chissà, sarà stato proprio uno di cui si fidava.

Uno che, però, pur volendo, non avrebbe potuto dire di no al capo. «Padre, ci credi che ti voglio bene?», mi chiese un giorno uno di questi figuri che ogni tanto passava a salutarmi. «Sì, ci credo che mi vuoi bene», gli risposi sorridendo e pensando di gettare tra noi un ponte di fiducia. E lui: «Eppure se 'quelli' mi ordinano di farlo, dovrò farlo... capisci? Non ti fidare di nessuno, padre, nemmeno di me...». E, con gli occhi bassi, si allontanò dalla chiesa. Lo guardai fin quando scomparve alla vista. Un brivido mi attraversò la schiena. Avevo capito. Gli ordini si eseguono. Il pusher, gravemente ustionato, è in ospedale. Questa storia maledetta dice molto più di quanto, a prima vista, si possa immaginare. Dice che, una volta cascato nelle grinfie della camorra è difficile, per chiunque, fare marcia indietro. Dice a noi, società civile, che non possiamo permetterci il lusso di prendercela con comodo, che bisogna fare in fretta, arrivare ai ragazzi prima di 'quelli'. Ci dice che occorre lanciare un potente salvagente a chi – e credo che non siano pochi – è pentito, vorrebbe mettersi in salvo, scappare via da una vita di finto benessere e di vero tormento, ma non osa, perché la paura di finire ammazzato lo pietrifica. Poveri ragazzi tra l’incudine e il martello. Occorre a tutti i costi gettare una rete di salvataggio a questi giovani pentiti, aiutarli a liberarsi dagli artigli dei loro aguzzini. E ridare loro la gioia di una vita finalmente normale e dignitosa.

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