mercoledì 20 aprile 2016
Noi, i migranti, la speranza: il modello possibile
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Con l’arrivo della bella stagione riprendono le traversate verso l’Italia dei barconi stracarichi di migranti e dei gommoni che si sgonfiano a poche miglia dalla partenza, sperando che arrivi in tempo una nave a soccorrerli. In questo caso si tratta di migranti africani, che si aggiungono ai profughi che vengono da Oriente e che si accalcano ai confini della Grecia. Tutti fuggono dalle guerre e dalla fame, ma più in generale da una mancanza di futuro. Il loro futuro lo cercano in Europa: in un’Europa tutt’altro che felice, ancora attraversata da una forte crisi economica, sempre di più chiusa in se stessa e timorosa di perdere il benessere acquisito.Proviamo a mettere a confronto le speranze dei giovani migranti con le aspettative dei nostri ragazzi. Sono giovani, per lo più, coloro che cercano fortuna da noi. Sono spesso bambini, che addirittura in molti casi viaggiano da soli. Sanno fin dall’inizio ciò che rischiano: la fatica, la fame, le angherie e le botte dei trafficanti, la morte in mare. Ma la speranza è più forte della paura, è davvero una speranza oltre ogni speranza. Pur di abbandonare una situazione senza via d’uscita ogni cautela viene meno. È una scelta per la vita, nonostante tutto: come quella di tante donne incinte che si mettono in viaggio e che durante il viaggio, magari, partoriscono.Sono giovani, certo, anche i nostri ragazzi. Ma sembrano più consapevoli della loro età e, insieme, più fragili. Possono conoscere tutto e sembra che possano avere tutto. In un mondo iperconnesso ogni cosa è a portata di mano e, avendo un po’ di soldi, può essere fatta propria senza fatica. La crisi economica, però, ha scosso questa convinzione. Molti ragazzi sono disorientati. Come unico desiderio vogliono conservare ciò che hanno, e vi si aggrappano. Altri, delusi e magari risentiti per ciò che non riusciamo più a offrire loro, emigrano anch’essi, sebbene in condizioni e con garanzie ben diverse di chi arriva sui barconi. La loro speranza, per chi ancora la coltiva, è comunque diversa: disincantata, prudente, attenta a non perdere quel che è rimasto.Con quest’incontro fra generazioni, con questo intrecciarsi di speranze di segno differente dobbiamo fare i conti, se vogliamo pensare realisticamente a un futuro per l’Europa. Non è possibile, non è realistico - lo ha ripetuto ancora qualche giorno fa a Lesbo Papa Francesco - costruire muri. I muri prima o poi crollano, o vengono aggirati. Non basta neppure, solamente, attuare politiche di aiuto allo sviluppo, certo meritorie, nelle parti più disagiate del mondo. È doveroso, certo, por fine a guerre che in buona parte vengono alimentate da chi con esse diventa sempre più ricco, è doveroso eliminare lo sfruttamento che, con la complicità di regimi corrotti, produce ricchezza per pochissimi e miseria per tutti gli altri. Ma in un contesto di comunicazioni globali non è possibile evitare che le diseguaglianze siano sotto gli occhi di tutti e che i luoghi in cui vi è maggior benessere non esercitino la loro forza di attrazione. Invece che costruire muri, allora, bisogna avere il coraggio di gettare ponti. Bisogna accogliere e integrare. Sono le immagini,  sono i verbi usati dal Papa, a Lesbo come nel videomessaggio diffuso ieri. I migranti «sono un dono, non un problema», ha detto Francesco. E dobbiamo saper «chiedere perdono» per quando non abbiamo accolto. Sembrano parole che indicano scelte irrealistiche, contrarie alla logica dell’utile. Sono però le uniche vie per governare una situazione che avrà i suoi effetti ancora per molti anni. Purché i ponti siano costruiti davvero fino in fondo: purché, in altre parole, non ci si fermi al gesto etico dell’accoglienza, ma si dia spazio a vere e proprie politiche d’integrazione.Su questo piano l’Italia può essere un modello. Parlo dell’Italia delle famiglie con i loro legami, delle relazioni tra vicini, delle piccole comunità con i loro centri di aggregazione: realtà nei cui confronti spesso la politica è stata disattenta. È a partire da qui che può realizzarsi non solo un’accoglienza vera, ma un’integrazione efficace, al contrario di ciò che è accaduto in altri Paesi. Ma per far questo ci vuole motivazione. E la motivazione viene solo dalla speranza. Per dar spazio alla speranza, in Europa, è necessario oggi accogliere e sostenere chi questa speranza la conserva e la porta con sé. Si tratta di una speranza vera, di uno slancio di apertura, di una disponibilità alla vita nonostante tutto. È il dono, il dono prezioso, che ci viene dalle persone che possiamo oggi accogliere.
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