Il Nobel alle donne dell'Iran sia anche per le afghane
venerdì 6 ottobre 2023

«La democrazia entra in Iran attraverso la porta dei diritti delle donne»; lo auspicò l’attivista Shrin Ebadi, 76 anni, quando nel 2003 ricevette il Nobel per la pace. Ora è una sua “sorella” minore, Narges Mohammadi, a ottenere vent’anni dopo lo stesso riconoscimento per la “sua lotta contro l’oppressione delle donne in Iran”. Ben poca democrazia, nel frattempo, è entrata nel Paese nonostante il ribollire delle proteste giovanili, ragazzi accanto a ragazze.

Narges Mohammadi nei suoi 51 anni di vita ha collezionato 13 arresti, 5 condanne per un totale di 31 anni di carcere e 154 frustate. Oggi è detenuta con altre 300 compagne nel carcere di Evin e in un suo recente articolo per il “New York Times”, fatto uscire di nascosto nel primo anniversario dell’omicidio di Mahsa Amini, il 16 settembre, ha scritto «Più ci imprigionano, più diventiamo forti». Una donna indomita, segnata nel fisico dalle percosse e dalla malattia – soffre di un disturbo neurologico e ha subìto un intervento al cuore – ma non piegata. La sua lotta è quella di tante iraniane, rinchiuse dietro sbarre di ferro per non aver obbedito a dogmi e regole maschiliste e patriarcali travestiti da religione. Oggi la sua lotta è anche quella per la sopravvivenza della 16enne Armita Garawand, in coma dopo aver subito pochi giorni fa un pestaggio perché non portava il velo in metropolitana, come migliaia di sue coetanee. La sua lotta è per tutti, uomini e donne del suo Paese, perché è la “meglio gioventù” dell’Iran a ribellarsi a un destino di oppressione, come ha scritto in un recente report Amnesty International: se a qualcuno è negata la cittadinanza piena – in nome del genere, dell’etnia, della religione, degli orientamenti politici e sessuali – nessuno è davvero cittadino.

E “il tutti o nessuno” è la chiave. Tra i candidati al Nobel, in tandem con Narges Mohammadi, compariva insistente il nome di un’altra donna di immenso valore: l’afghana Mahbouba Seraj. Quando mesi fa aveva saputo che il suo nome era nella cinquina finale, dalla sua casa di Kabul dove ha scelto di restare nonostante la cittadinanza americana per tenere aperti i rifugi per le vittime di violenza domestica, aveva riso al telefono con Avvenire. “Un onore per me, ma più ancora è un sostegno prezioso per le donne di Teheran e di Kabul che lottano per non scomparire”, aveva commentato nell’intervista realizzata nell’ambito del progetto #avvenireperdonneafghane. Siamo felici dell’assegnazione del Nobel a Narges Mohammadi e che grazie a esso sulle donne iraniane si siano accesi di nuovo i riflettori, dopo le numerose campagne social in tutto il mondo.

Un'immagine di Narges Mohammadi

Un'immagine di Narges Mohammadi - Reuters

Ma noi quegli stessi riflettori vogliamo – pretendiamo – che si allarghino per illuminare ciò che accade nel confinante Afghanistan, abbandonato dagli Stati Uniti ai taleban con la precipitosa ritirata dell’agosto 2021. Anche lì le donne scendono in piazza, ma non sentiamo il loro urlo. Anche lì vengono rinchiuse in prigione, ma non avvertiamo la loro sofferenza. Vengono lapidate e annegate per peccati-reati che non lo sono affatto, ma non riusciamo a credere a quei rari e feroci video che vengono diffusi dalle attiviste rifugiate all’estero. Vengono rinchiuse in gabbie di stoffa – i burqa - e allontanate dalla scena pubblica perché sia più facile tenerle in pugno in quella privata. Vengono lasciate senza istruzione perché l’ignoranza facilita la sottomissione. La resistenza iraniana scende in piazza e rischia gli arresti, quella afghana tiene aperte le scuole clandestine. Le donne iraniane si tolgono il velo, le afghane con il velo addosso inventano modi per sopravvivere. Non vale un Nobel, tutto questo?

Quel riflettore che oggi illumina Teheran e getta di rimando una flebile luce anche su Kabul sia per noi una spada infilata nel cuore.

«Non lasciateci sole, per favore non dimenticateci», concludeva la sua intervista ad Avvenire Mahbouba. E non vogliamo dimenticare nemmeno le donne oppresse da regimi illiberali o gruppi terroristici nel mondo: le giovani rapite in Nigeria, le donne stuprate per cancellarne l’appartenenza etnica o nazionale nel Tigrai, in Sudan, nel Myanmar, in Ucraina, le bambine infibulate in tante tribù ataviche dell’Africa centrale… Un oceano di sofferenza che il Nobel a una singola eroina che lotta “contro l’oppressione delle donne (in Iran) e per la promozione dei diritti umani e della libertà per tutti” in parte risarcisce. E in parte denuncia con maggior fragore.


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