mercoledì 20 luglio 2011
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Purtroppo, certo. Ma è una situazione già vista, a tutte le latitudini. Proviamo a raccontarla così, nei suoi tratti tipici. C’è una crisi, un’emergenza umanitaria. Ed è sempre, se qualcuno non l’avesse notato, «la più grave catastrofe umanitaria della storia». Già, perché, in questo mondo di tecnologie rivoluzionarie e connessioni perpetue, i disastri più antichi (la natura impazzita, la mancanza di acqua o di cibo) si fanno dall’uno all’altro sempre più gravi. Può essere il cataclisma delle alluvioni in Pakistan o l’ondata di rivolte nel Maghreb, o la spaventosa siccità che nel Corno d’Africa ha precipitato 11 milioni di persone (tra le quali 500 mila bambini sotto i cinque anni d’età) nel rischio della morte per fame.Le grandi organizzazioni lanciano l’allarme e chiedono aiuto. Qualche tempo dopo, dalle stesse sedi, parte un altro grido: i fondi non affluiscono e, mentre la gente muore, la macchina dei soccorsi stenta a partire. Ancora un po’ di tempo e l’emergenza diventa cronica, l’allarme si spegne e si può, tutti insieme, passare ad altro.C’è una sola "organizzazione" che riesce sempre a muoversi con passione ed efficienza, precisione e generosità: la Chiesa. Non è mai sola, per fortuna, ma è l’unica che c’è sempre. Basta guardare al Corno d’Africa: la Caritas, e questo giornale lo ha testimoniato, si batte per gli affamati fin dal primo giorno, il Papa ha lanciato il suo appello all’Angelus e la Conferenza episcopale italiana ha già versato fondi ingenti. Se provaste a rileggere i giornali dell’estate scorsa, quando la crisi in Pakistan era all’apice, scoprireste le stesse identiche cose. Non è un giudizio, è cronaca.Con due altri fattori da ricordare. Alla Chiesa cattolica, in quei frangenti, va riconosciuta una difficoltà e un merito in più. La difficoltà sta nella dura ostruzione che spesso le tocca superare per realizzare le sue opere umanitarie: in Pakistan, dove i cattolici sono minoranza aspramente discriminata, uno degli ostacoli ai soccorsi era la "concorrenza" dei gruppi legati ai fondamentalisti islamici, pronti anche a sacrificare il benessere di molti pachistani pur di affermare la propria esclusiva presenza. Nel Corno d’Africa sono vaste le zone in cui si corre lo stesso rischio. E il merito: aver cura e amore per l’uomo, a prescindere da qualunque "appartenenza". In Pakistan come nel Corno d’Africa i soccorsi vanno in grandissima parte a uomini e donne di fede islamica, così come l’appello alla democrazia e alla concordia durante le rivolte del Maghreb era diretto soprattutto ai musulmani e ai regimi dei loro Paesi.Per salvare 11 milioni di africani dalla morte per fame, le Nazioni Unite chiedono 1 miliardo e mezzo di dollari. Se la somma dovesse ricadere sui soli abitanti dell’Unione Europea, farebbe 3 euro a testa. Se aggiungiamo gli Usa, il Canada e l’Australia, per restare all’Occidente, l’obolo diventa irrisorio. Se ci mettiamo i Paesi ricchi dell’Asia, ridicolo. E’ vero, siamo in difficoltà, la crisi ci rende un po’ più poveri e, soprattutto, ci toglie ottimismo e voglia di fare, lima slanci e speranze. Ma perché rinunciare così? Perché lasciare sola la Chiesa a ricordarci che non solo nessun individuo ma nessun Paese è ormai un’isola? Che dietro la carestia africana ci sono anche questioni come il cambiamento climatico, il costo dell’energia, le grandi speculazioni sui prezzi dei generi alimentari, che ci riguardano tutti e che, a turno, ci investono tutti?Prima ancora del ragionamento, però, dovrebbe metterci in moto un’istintiva solidarietà con chi soffre senza colpa alcuna. Quelli che accusano la Chiesa cattolica di aver cara la vita nascente o declinante, e meno quella adulta e piena, hanno in questi casi l’occasione di mostrare di che pasta sono (o non sono) fatti. La Chiesa già lo fa.
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