mercoledì 9 gennaio 2013
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La fantasia degli uomini ha modellato gli dèi, la fantasia di Dio ha plasmato il Bambino di Betlemme. Nel divario estremo e nell’incontro stupito di due fantasie – la libertà di invenzione da un lato, la potenza creatrice dall’altro – l’arte si fa sacro e il sacro si fa arte. Nulla che si ponga al di fuori della ricerca del Signore della vita e che non contempli il mistero che ci sovrasta e in cui ci muoviamo vale la pena di essere raccontato o raffigurato. Ricerca che ha spinto le genti di ogni tempo e di ogni dove a innalzare templi per rendere gloria al mistero. In quegli spazi dove il sacro era quasi sempre divieto, luogo accessibile a pochi e proibito al popolo, si sono consumati nei millenni riti e sacrifici, spesso nel terrore del sangue, nel tentativo disperato di dominare la divina potenza costringendola in simulacri di pietra o di prezioso metallo.
Per millenni tutto è stato così umano, troppo umano, a volte tristemente bestiale. In quei templi però gli uomini si sono prostrati, hanno adorato, pregato, supplicato. Ma solo qualche antico greco ha avuto l’ardire di innalzare un’ara al Dio ignoto e solo il piccolo popolo generato da Abramo ha rifiutato di dare immagine e perfino un nome all’Altissimo. Quel nome che Mosè invoca per annunciarlo agli Ebrei schiavi in Egitto non sarà un nome da inserire in un nuovo Olimpo, ma luce di rivelazione: «Io sono Colui che sono» (Esodo, 14). Dio non si lascia imprigionare negli schemi umani, sollecita una conversione continua, non si accontenta, vuole tutto: mente, cuore, anima. Da ogni uomo, da ogni popolo, fin dall’inizio, fin dal Giardino ormai perduto. Per questo gli Ebrei, come il loro capostipite, sono così spesso in cammino.
L’esodo è il loro orizzonte: quel mettersi sulla strada è la condizione per la terra promessa, che è dono, mai conquista. Un cammino nato raramente da libera scelta. Pur nella costrizione di guerre, schiavitù, persecuzioni, apre a una libertà più grande, quella che non conosce limiti se non l’amore dell’Altissimo. L’amore geloso, esclusivo perché totale e incondizionato, è l’amore che liberamente sceglie e chiama. Così nasce il popolo eletto, per chiamata: "lek lekà" (vattene), imperativo senza appello rivolto ad Abramo perché abbandoni la sua terra e spezzi tutti i legami tranne uno, quello di Dio. Per chiamata giunge a noi il Salvatore: il saluto rivolto alla ignota fanciulla di Nazareth, ma l’unica "piena di grazia", è anche domanda di un Dio che chiede "permesso" per farsi uomo. Abramo, Maria, entrambi accolgono il mistero. E il mistero accolto si fa vita: Isacco, da lui un popolo nuovo; il Bambinello, da lui tutte le genti diventano un sol popolo, quello dei figli di Dio.
Lui, quel Bimbo, è insieme inizio e meta. I magi contemplano il piccolo Gesù dopo un lungo viaggio. Quella contemplazione è anche il punto di arrivo per ogni artista degno di questo nome, è il coraggio di farsi attrarre da chi è più grande di noi. Con lo sguardo all’insù a rimirar le stelle e piedi stanchi di percorrere lande deserte e terre inospitali diventiamo cercatori di luce. In questa tensione tra cielo e terra, in questa ricerca di cuore e di mente, che non si ferma a formule o concetti, ma vuole abbracciare tutto l’uomo così com’è, carne e anima, l’arte si fa sacro. E la fantasia dell’uomo incontra la fantasia di Dio per imprimere nella materia lo spirito della vita.
Luoghi dell’Infinito ha voluto raccontare tutto questo negli anni e vuole continuare a farlo: entrando nel diciassettesimo, abbiamo rinnovato testata e veste grafica, per meglio rispondere alla chiamata dell’Anno della fede. Lo facciamo con il numero in edicola affrontando il rapporto tra le arti e il sacro nel Novecento. Un dialogo mai così difficile, eppure sempre vivo, a dispetto di chi afferma che sia morto fin dall’Ottocento. Un dialogo che Gianfranco Ravasi, Mario Botta, Pierangelo Sequeri e altre grandi firme mostrano quanto sia stato e continui a essere bello, fecondo e ricco di stupore. Un dialogo che è avventura senza fine. 
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