mercoledì 24 marzo 2010
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Trent’anni fa moriva monsignor Oscar Arnulfo Romero, arcivescovo di San Salvador, ucciso a sangue freddo mentre celebrava la Santa Messa vespertina nella cappella dell’ospedale della Divina Provvidenza. E proprio nel giorno in cui il popolo salvadoregno è chiamato a fare memoria dell’estremo sacrificio del suo pastore, la Chiesa Italiana celebra la XVIII Giornata di preghiera e digiuno in ricordo dei missionari martiri e di quanti sono caduti, in varie circostanze, nell’adempimento del loro dovere evangelico. Si tratta di un’iniziativa promossa come ogni anno dal Movimento giovanile missionario della Fondazione Missio.Nel 2009, secondo il computo redatto dell’agenzia Fides, sono stati 37 i missionari che hanno perso la vita: 30 sacerdoti, 2 religiose, 2 seminaristi, 3 volontari laici. Il numero complessivo è quasi doppio rispetto al 2008, ed è il più alto registrato negli ultimi dieci anni. Umanamente parlando, si tratta di un fenomeno davvero inquietante che genera cordoglio, dolore, turbamento, talvolta anche rabbia. Sì, per tutte le vicissitudini e angherie che avvengono nelle periferie del mondo e di cui sono testimoni queste sentinelle di Dio. Eppure il perdurare della violenza nei confronti dei giusti rappresenta paradossalmente, alla luce del Vangelo, uno stato di grazia e una forte provocazione per le coscienze. Non foss’altro perché l’identità cristiana, basata essenzialmente sulla consapevolezza dell’impronta divina presente nell’animo umano, ha sempre spinto i missionari a incarnare lo "spirito delle beatitudini", offrendo le sofferenze vissute per l’edificazione di una società nuova, rispettosa dei diritti fondamentali della persona.Ecco perché la vita di monsignor Romero e di tanti apostoli del nostro tempo ci induce a una sorta di discernimento sulla nostra quotidianità, nella consapevolezza che essi rappresentano il valore aggiunto del cristianesimo. Sappiamo che nel cuore dell’uomo ci sono anche meschinità e crudeltà e sappiamo che gli esseri umani sono capaci di compiere crimini indicibili contro gente indifesa; tuttavia, il seme del bene è presente nell’anima di ogni persona, creata a immagine e somiglianza di Dio. Vi sono infatti uomini e donne che si sacrificano per gli altri nella società contemporanea, senza chiedere nulla in cambio, facendosi per la famiglia planetaria testimoni di speranza, in prima fila sul fronte della lotta alle prevaricazioni e alle ingiustizie.In un mondo mercantile e globalizzato, regolato dalla scriteriata ed egoistica ricerca del profitto a tutti i costi, i nostri missionari sono davvero un segno di contraddizione, testimoniando il più grande comandamento sociale della storia: quello dell’amore. Un precetto divino che rispetta gli altri e i loro diritti. Esige la pratica della giustizia e ispira una vita che si fa dono di sé, nella consapevolezza che «chi cercherà di salvare la propria vita la perderà, chi invece la perde la salverà» (Lc 17,33). Insomma, se vogliamo un mondo migliore, dobbiamo uscire da noi stessi, fermamente convinti che il segno intangibile della gratuità sta proprio nella parresia intesa come coraggio di osare, di criticare i soprusi, l’assenza di solidarietà, l’odio, la guerra e ogni genere d’egoismo nella storia. È questa la discriminante tra una pratica religiosa, algida e disincarnata, asettica rispetto alle vicende umane, e la coraggiosa franchezza di coloro che, come i missionari di cui oggi facciamo memoria, vivono la militanza nel nome di Dio.E quando per ignavia, stanchezza o delusione, noi cristiani del cosiddetto Primo Mondo, avessimo la tentazione di gettare la spugna rinunciando ad agire per il futuro, dovremmo avere l’umiltà di imparare da loro, martiri del Terzo Millennio. Sovvengono allora quasi istintivamente le parole del vescovo Romero: «La mia vita appartiene a voi». A un popolo da servire fedelmente. La scelta di illuminare o oscurare l’esistenza è nella condotta dell’uomo e non fuori di lui.
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