sabato 17 settembre 2011
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«Non dobbiamo farci atterrire». La frase pronunciata dal presidente Napolitano a Bucarest resta in mente come quelle che colgono nel profondo un umore collettivo. Napolitano si riferiva alla tendenza negativa della crescita economica in Italia, e ai dati della disoccupazione giovanile. Occorre, diceva, affrontare la situazione con consapevolezza e lucidità, e in un contesto europeo. E alludeva al lavoro che spetta alla politica. Ma quella espressione così spontanea, così immediatamente comprensibile a chiunque, sembra uscire dai protocolli dei discorsi ufficiali e rivolgersi direttamente agli italiani. A quelli che lavorano, e ormai si prefigurano una vecchiaia da poveri; a quelli che studiano, e già si sentono addosso la condanna al precariato cronico; a quelli che il lavoro l’hanno perso, e in questa crisi si vedono chiudere tutte le porte. A quelli attoniti davanti al franare delle Borse, all’impennarsi degli spread, di cui magari non comprendono la logica ma in cui avvertono una minaccia cupa. «Non dobbiamo farci atterrire» sembra un’esortazione che va oltre i palazzi della politica ed entra nelle case, la sera, mentre si è a tavola e dalla tv accesa arrivano le parole dei tg; detta poi, come è, da uno che aveva vent’anni nel ’45, così che non gli si può negare di avere visto tempi più drammatici, e di averli saputi attraversare. Ma Presidente – verrebbe voglia di domandare, e domandarsi – come si fa a non lasciarsi atterrire? A leggere i giornali sembra che abitiamo in un Paese fatto di carta, che sta ricadendo, vuoto, su se stesso, e in cui tutti gli indici non fanno che segnare un’erosione di produttività e di fiducia. Dove guardare, dove civilmente guardare, per non lasciarsi prendere dallo scoramento? Forse bisogna sapere andare oltre la rappresentazione mediatica di questo Paese; forse per ritrovare fiducia si deve guardare all’Italia concreta e quotidiana. Andare per esempio nelle piazze della nostra provincia nel giorno di mercato, e misurare l’abbondanza e la qualità, e magari il profumo, della merce, e la compostezza pacifica della gente che rincasa con la sua sporta. Andare nelle scuole, in migliaia di scuole dove, comunque, oltre ogni titolo e polemica, ci sono insegnanti che insegnano e ragazzi che studiano. Andare negli ospedali, nelle fabbriche, sui treni, negli oratori; dentro l’Italia vera, che non offre spunto per nessun titolo e tuttavia c’è, vive, lavora, continua. Questa Italia silenziosa e massiccia, ben radicata struttura portante che non viene rilevata dagli indici di Borsa nel loro vertiginoso oscillare; non fatta d’aria o di carta, ma di materia pesante e antica. Perché è tutto vero, la denatalità ci svuota e impoverisce e la globalizzazione porta altrove il lavoro, e sembra che un mondo di garanzie e certezze stia finendo. Ma l’Italia, quella di carne, ossa, strade, mattoni e campanili, c’è, e ha il respiro lento e inavvertibile della terra su cui viviamo: ci siamo così abituati, che non ce ne accorgiamo. L’Italia non va a picco, non si spacca e non si squaglia; continua, sotto al clamore sguaiato che genera raffiche di titoli di giornale, a fare andare i treni, a mandare a scuola i figli, a lavorare. Sperare, dunque, in cosa? Noi cristiani abbiamo la nostra speranza in quel Crocefisso che è ancora quasi ovunque da noi, e che ha intessuto la nostra storia. L’ha intessuta tanto che molti, non credenti, hanno comunque addosso un animo naturaliter cristiano. Solidale, generoso verso chi viene da lontano; e teso a un fare buono, a un costruire che non si esaurisce nel puro tornaconto o guadagno. Così che l’ordito della stoffa, qui, è robusto, e non volatile come il fluttuare impazzito di indici e spread. Non dobbiamo lasciarci atterrire, ci dice uno che ha visto la nostra storia farsi. E gli si è grati come a quei vecchi che in una casa guardano alle cose con una diversa prospettiva; e a ciò che ci spaventa scrollano benevolmente il capo – naviganti di lungo corso, passati oltre a ben altre bufere.
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