sabato 6 febbraio 2010
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La chiusura di cinque sedi estere di corrispondenza della Rai, ventilata dai vertici di Viale Mazzini, ha innescato un coro di proteste nell’opinione pubblica: si sono pronunciati contro tale ipotesi diversi organismi del non profit, nonché la galassia delle riviste missionarie unite nella Fesmi. Il dibattito che ne è nato (e al quale questo giornale sta dando voce, una voce pressoché isolata nel panorama mediatico) va ben oltre la contingenza immediata.Sul piatto stanno questioni cruciali per la qualità dell’informazione televisiva e, di riflesso, per il "tono" della convivenza civile. Il primo nodo riguarda l’importanza dell’informazione "sul" Sud del mondo. Meglio: "dal" Sud. La domanda è: in tempi di globalizzazione accelerata come quelli che stiamo vivendo, ha senso restringere di fatto i confini degli interessi dei telespettatori, andando a ridurre il numero delle "finestre" dalle quali raccontare il mondo che cambia? Detto altrimenti: se davvero arrivasse a rinunciare alle sedi di Beirut, Il Cairo, Nairobi, New Delhi e Buenos Aires, la Rai si priverebbe di un terzo secco del totale delle sue sedi di corrispondenza. Vale a dire, di entrambe le africane, dell’unica in America Latina e di quella in India, Paese destinato a essere protagonista del futuro come pochi altri. Il rischio per l’utenza è di fruire, in un futuro non lontano, di un’informazione ancora più ripiegata sull’Occidente, ancor meno attenta a cogliere i segnali di novità dal Sud del mondo. In una parola: più provinciale di quella attuale, che già non brilla per apertura al mondo.Il motivo che viene addotto per giustificare la drastica scelta che si profila all’orizzonte è di natura economica. Fonti della direzione generale quantificano intorno al milione di euro il risparmio che si determinerebbe chiudendo le suddette sedi. Hanno buon gioco quanti ricordano che si tratta di cifre pur sempre cospicue, ma di gran lunga inferiori ai compensi stratosferici (nell’ordine del milione e mezzo di euro) che la Rai continua a sborsare per aggiudicarsi la presenza di "star" in programmi di varietà.Qui entriamo in un altro ordine di questioni. Se la decisione di sopprimere alcune sedi estere andasse in porto, sarebbe una scelta grave perché dettata da criteri economicisti che, come tali, non dovrebbero essere unici o comunque determinanti nel servizio pubblico. Nessuno nega che un problema di compatibilità economica esista (il "profondo rosso" del bilancio di previsione Rai non è un mistero). Ma non è contraendo l’informazione sul mondo che si risolve il problema, perché proprio questo tipo di servizio è connaturale alla "vocazione" di un’azienda pubblica che fa pagare il canone ai suoi utenti. Costoro non sono certo insensibili – in quanto contribuenti – alla questione del vertiginoso "buco" Rai. Ma vorrebbero che si provasse a vigilare sugli esosi compensi a taluni "big" del piccolo schermo o su certi sprechi e inefficienze che in Rai tuttora permangono.La questione non esime nessuno dalle sue responsabilità. I dirigenti Rai hanno le loro, come pure i direttori dei tg che in questi anni non hanno valorizzato adeguatamente la possibilità di proporre servizi da Nairobi o da New Delhi p da Buenos Aires. Ma un po’ di colpa ce l’ha – non saremo certo noi a nasconderlo – anche il pubblico, che non ha "pressato" come doveva per chiedere un’informazione meno appiattita sul gossip e sulle beghe di casa nostra e più capace di respirare a pieni polmoni.Tuttavia, checché ci dicano a colpi di comunicati sull’audience, ormai è chiaro a tutti che a decidere su palinsesti, scalette dei tg e focus dei superprogrammi di approfondimento non siamo noi spettatori. E la china sempre meno di servizio imboccata dal servizio pubblico può e deve essere corretta da chi governa la Rai e sulla Rai vigila.
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