Memoria ogni giorno dopo
sabato 27 gennaio 2024

Il giorno dopo. Dipende da cosa e come si è vissuto quello prima. Se è stato il “Giorno della Memoria”, il giorno dopo inizia il problema: come non dimenticare. Perché aveva ragione il poeta: «e involve Tutte cose l’oblio nella sua notte». A questa legge non si sottrae neanche una ricorrenza che fa del ricordare il suo stesso contenuto. Certo, non un ricordo qualsiasi, ma quel ricordo: la Shoah. La Shoah stessa è intrisa fin dal suo orribile concepimento della dinamica dell’oblio: fu un’idea di eliminazione dall’umanità di un gruppo di persone, appunto la cancellazione dalla memoria di milioni e milioni di persone “per la sola colpa di essere nati”. Fu un’azione che confidava nell’oblio, la sua radice maligna si nutriva di alcuni componenti costitutivi della persona umana: dimenticare, rimuovere, adattarsi.

Circa il dimenticare non può certo consolarci la forza della tecnologia che promette di rendere “eterni” i ricordi. Quanto alla rimozione Sigmund Freud ce lo ha svelato irrevocabilmente: ciò che ci dà angoscia tendiamo a rimuoverlo. Considerando la forza formidabile ma ambivalente dell’adattamento, conviene ricordare quanto mi disse una giovane armena: «Cosa c’è di peggiore della guerra? Adattarsi alla guerra». I testimoni stessi degli orrori lo sanno bene: ricordare con precisione è un duro impegno per non rischiare di non essere creduti, prestando il fianco al negazionismo. Se dunque siamo naturalmente inclini a dimenticare, rimuovere, adattarci, come raccogliere, il giorno dopo, il messaggio di ricordare che ci viene dal giorno prima? Evitare, il giorno prima, la dimensione celebrativa che collega la rilevanza al clima culturale e politico del momento, cioè alla possibilità o meno di agganciarsi con interessi estranei e di parte.Ma soprattutto, ricordando che Shoah è una parola di fuoco, evitare la banalizzazione o l’enfasi eccessiva: nel primo caso sarebbe svuotata di significato, nel secondo caricata di retorica. Due modi di tradirla. Sì, dobbiamo temere un approccio superficiale, visivo, collegato a volte agli eventi, ripetuti o ripetitivi, “di massa”, senza che incidano sui singoli. La ricerca di impatti quantitativi più che qualitativi.

La Shoah è una vicenda che è nata nell’intimo delle persone, delle loro relazioni, all’inizio quasi sussurrata e poi cresciuta, ostentata, urlata e dilagata nella retorica del terrore. Perché non torni più, l’orrore di quella vicenda – insieme alla forza di chi gli si oppose – deve incidere nell’intimo delle persone di oggi, delle loro relazioni, abbandonando nuove retoriche, ostentazioni e urla. Chiede di esserci il giorno dopo; non nelle riunioni, nelle piazze o nelle televisioni, ma dove si sbriciola nell’ordinarietà della vita quotidiana.

Perché in quella vita ordinaria, molti anni fa, diligenti impiegati tedeschi si trasformarono in ubbidienti contabili di morte del Reich e buoni italiani andarono a denunciare conoscenti ebrei, così come, alcuni anni dopo, pacifici vicini di casa divennero assassini della porta accanto nei Balcani, e altri uomini e donne, oggi, in Ucraina, in Israele, a Gaza, stanno compiendo efferatezze, certamente convinti, nella loro falsa coscienza, di fare la cosa giusta o di ubbidire agli ordini. I bambini che sopravviveranno a questi nuovi orrori saranno potenziali incubatori di odio.

Il Giorno della Memoria esige una convinta pratica quotidiana: così il giorno prima si coniuga con il giorno dopo in una continuità che si chiama educazione. Conosco una docente di storia che si guarda bene dal celebrare il Giorno della Memoria. Per lei il 27 gennaio è un giorno come gli altri perché – dice – nel normale programma di storia i miei studenti e le mie studentesse vengono a conoscenza della Shoah, si interrogano con me e ne usciamo inquieti, con domande nuove sul come agire di conseguenza.

Fu una decisione che prese un giorno in cui la sua scuola aveva dedicato una settimana intera alla Memoria e un suo alunno sincero esclamò: «Basta con questa Shoa! Non se ne può più». La professoressa fu intelligente e non reagì, ma il giorno dopo riunì gli studenti e mise a tema l’intervento politicamente scorretto del loro compagno, senza indignarsi, ma col gusto di ascoltare. Insieme presero la decisione di «vivere la memoria in tutto l’anno di storia e non celebrarla».

Mi piacerebbe che ciascuno di noi appartenesse a quella classe, il giorno dopo, convinto della necessità di andare alla radice di quello che è accaduto e non solo al suo esito palesemente tragico: come l’odio ha covato ed è cresciuto nel suo brodo di cultura naturale che è l’indifferenza. Quella radice, infatti, non è di “allora”, ma è di “oggi”, non si è sviluppata solo in “quelli là”, ma si può sviluppare, anzi si sta sviluppando in “noi qua”. Ciascuno è un portatore sano di una possibilità di odio e di indifferenza, sulla soglia tra il giorno prima e il giorno dopo c’è ciascuno di noi. La Memoria di quell’odio diventa allora la memoria del nostro odio, del mio possibile odio, della mia possibile indifferenza.

Franco Vaccari

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