sabato 20 marzo 2021
La società ci illude che la vita sia viaggiare, lavorare senza sosta, consumare. Ma nulla vale il bello della cura e dell’accoglienza, il buono di un affetto che si trasmette
«Meglio libera che moglie e madre». No, libertà è non dover scegliere

Ansa

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Gentile direttore,
ho letto con interesse la statistica da cui si evince che le donne che hanno un lavoro a tempo indeterminato rispetto alle disoccupate, hanno minore propensione a mettere su famiglia. La mia interpretazione è che una volta che si è assaporato il valore e il piacere dell’indipendenza, almeno per un po’ di anni, è difficile immaginarsi di rientrare in un ruolo di dipendenza come è quello, quasi sempre, di moglie e madre. A meno che non si abbia un istinto fortissimo di maternità, e penso che molte donne – come me – non c’è l’abbiano, accettare il ruolo della donna in famiglia, almeno con il modello maschile ancora imperante, è molto pesante. Qualunque sia il tuo lavoro – donna medico, ingegnere, architetto, commessa, operaia etc. etc. – il carico di lavoro familiare spetta quasi totalmente alle donne e ben si è visto nei lockdown. Solo le donne non indipendenti economicamente aspirano al matrimonio, è un modo per “sistemarsi” e sperare di essere padrone a casa propria. Sono parole dure, lo so, ma meglio lo stipendio del doppio lavoro. Attorno ai 40 anni, può venire qualche rimpianto, ma basta avere qualche amica sposata per farselo passare.

Maria Albanese Udine

«I figli, quel desiderio perduto delle 30enni»: così sabato 13 marzo aveva titolato in prima pagina questo giornale, presentando la ricerca “Giovani, famiglia e futuro attraverso la pandemia” del Centro internazionale studi famiglia (Cisf), a cui si riferisce la lettera di Maria Albanese, con la quale il direttore mi chiede di interloquire. Il Cisf, dati alla mano, argomenta che le giovani donne lavoratrici a tempo indeterminato, superati i 30 anni, sono meno propense ad avere un figlio rispetto ai colleghi maschi, anche più giovani. La spiegazione della lettrice è che si tratti di una conseguenza in fondo ovvia: «Assaporato il valore e il piacere dell’indipendenza», perché rinunciarvi per tornare «in un ruolo di dipendenza» come quello di moglie e madre? «Parole dure» per stessa ammissione della signora Albanese. In larga parte ancora e purtroppo vere. Come sono duri e veri i dati che emergono dalla ricerca della Fondazione Donat Cattin, riportati martedì 16 marzo nelle pagine di cronaca nazionale di “Avvenire”: il 51% dei giovani interpellati, tra i 18 e i 20 anni, non si immagina

genitore in un futuro prossimo. Dunque, la società italiana è già post-familiare: matrimonio pressoché scomparso dall’immaginario dei giovani, legami fluidi, individualismo, bambini il minimo indispensabile... Tutto bene, in nome della libertà di ciascuno, come sembra suggerire la nostra gentile lettrice? O piuttosto, come invece sembra a noi, il frutto avvelenato di una società che si è arresa alle storture che impediscono a un uomo e ancora di più a una donna di essere pienamente e compiutamente felici? Di una società, ancora, che ci illude che la libertà sia viaggiare, lavorare senza sosta, consumare?

No, non possiamo rassegnarci (e sia detto per inciso, non crediamo che nel 2021 siano numerose le donne che si sposano per “sistemarsi”, anche se sappiamo che la mancanza di un lavoro restringe lo spazio di libertà di molte). Si deve continuare insieme, madri e padri, a reclamare sostegni e servizi per armonizzare il tempo della famiglia e quello del lavoro: è dimostrato infatti che laddove essi sono presenti la scelta generativa è favorita. Ci si deve educare, uomini e donne, alla condivisione

dei carichi familiari perché nella coppia siano distribuiti in modo paritario. Ci si deve impegnare, lavoratrici e lavoratori, perché nelle aziende i figli non siano un ostacolo alla carriera. Si devono intensificare gli sforzi perché i salari siano uguali a parità di mansioni. Perché nessun uomo e nessuna donna si senta oppresso o debba scegliere tra carriera e famiglia. E poi bisogna raccontare il bello e il buono che si vive nelle famiglie italiane: il bello della cura e dell’accoglienza, il buono di un affetto che si trasmette di generazione in generazione. È vero, crescere un figlio può essere faticoso, soprattutto in una società che tende a lasciare soli i giovani genitori e che spaccia l’assenza di legami per libertà. Ma è una avventura senza paragoni, un’esperienza che dà senso a una vita intera. Bisogna dirlo, bisogna mostrarlo anche rivoluzionando una narrativa (mediatica e artistica) a senso unico. Perché il rimpianto di cui parla la gentile lettrice alla fine della sua lettera, riferendosi alle 40enni (anche ai 40enni, aggiungiamo

noi), alla lunga non si trasformi in rimorso.

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