Ma le scorciatoie in economia non ci possono essere
martedì 25 settembre 2018

In economia non ci sono pasti gratis, scorciatoie o ricette miracolistiche. E le cure-choc prima o poi presentano un conto da pagare. L’economia per funzionare bene ha bisogno di idee chiare e obiettivi condivisi, azioni responsabili e visione di medio lungo periodo. Una classe politica concentrata solo sulle prossime elezioni o sui risultati dei sondaggi settimanali, non solo sta venendo meno al dovere di servire il bene comune, ma rischia di portare acqua al declino. Concetti di questo tipo andrebbero insegnati già nelle scuole dell’obbligo, come antidoto al radicarsi dell’egoismo e dell’avidità nel tessuto connettivo delle società e nelle teste della classe dirigente che si sta formando. Non si tratta di imporre una visione, ma di formare alla conoscenza di leggi fondamentali della natura.

Per fare un esempio: a nessun Paese nel mondo finora era mai venuto in mente di dotarsi di un sistema fiscale all’americana, cioè con aliquote molto basse, e allo stesso tempo di un welfare alla svedese, con servizi sociali elevati e diffusi. Negli Stati Uniti l’imposizione fiscale è contenuta (e l’evasione combattuta in modo militare), ma sanità e pensioni sono affari del tutto privati. In Svezia invece il welfare è esteso e gratuito, i bambini non pagano nemmeno la mensa scolastica, ma le tasse ovviamente sono piuttosto alte (e pagate da tutti, fino all’ultimo centesimo).

Un Paese che volesse pagare poche tasse e allo stesso tempo darsi un welfare generoso, in sostanza, andrebbe incontro a seri problemi. L’Italia in parte ha già conosciuto questa formula in passato, e non è andata molto bene. Negli anni 60-70 il nostro Paese si permetteva di spendere per la sanità e la scuola la stessa percentuale di Pil di Francia e Germania, ma presentava entrate fiscali inferiori di dieci punti. Inoltre, per più di un decennio oltre la metà delle nuove pensioni erogate erano trattamenti di invalidità. In sostanza, quel modello di sviluppo si è fondato su una parte di Paese che non pagava tasse, e un’altra che (soprav)viveva di sussistenze generose quanto insostenibili. Sappiamo tutti com’è finita: con un debito pubblico salito alle stelle, un futuro ipotecato per le generazioni successive, una continua rincorsa a riforme e interventi correttivi per rientrare non solo nei parametri europei, ma in quelli della pura e semplice sostenibilità economica.

Per tutti gli anni 90 l’Italia ha tentato, con riforme delle pensioni, privatizzazioni e tagli di vario tipo ai servizi di rimettersi in carreggiata. Purtroppo quando ce la stava ormai facendo si è trovata coinvolta come altri Paesi in una crisi di dimensioni epocali, quella scoppiata nel 2007, che ha quasi finito per annullare i risultati di tanti sacrifici.

È dunque comprensibile che oggi, dopo un ulteriore decennio di austerità e cinghie tirate, ci sia voglia di alleggerire la pressione e respirare un po’ dell’aria buona che si trova nelle fasi espansive. In questo senso l’idea che in un programma (o meglio: «contratto») di governo possano convivere misure come l’abbassamento delle tasse e al medesimo tempo l’introduzione di un reddito garantito per tutti, non è del tutto irrazionale.

Flat tax e reddito di cittadinanza, infatti, possono anche convivere, a condizione tuttavia che ci si avvicini al duplice obiettivo procedendo con molta cautela e tagliando con giudizio (e scelte comunque impegnative) altre spese. Il dibattito in corso nel governo gialloverde in vista della manovra evidenzia però il rischio di trascurare la lezione degli anni 70. Soprattutto se non ci si accontenta di incominciare ad abbassare un po’ le tasse e di consolidare il reddito di base ai più poveri già avviato nella scorsa legislatura con il reddito di inclusione sociale, ma se si pensa anche di condonare indistintamente le sanzioni a quanti non hanno adempiuto agli obblighi fiscali, se si lancia il messaggio che i pagamenti in contanti (e in nero) sono tollerati, se si vogliono alzare le pensioni anche a chi ha sempre evaso i contributi, se ci si vuole ritirare prima dal lavoro e se si vogliono rinazionalizzare le aziende privatizzate a loro tempo...

Secondo uno studio della Commissione europea sull’evasione dell’Iva, nel 2016 l’Italia è risultata ancora una volta il Paese meno virtuoso dell’Unione, con 36 miliardi non pagati. In base ai calcoli più accreditati l’evasione totale in Italia ammonterebbe ancora, nonostante i nuovi e più efficaci mezzi di controllo, ad almeno 130 miliardi. Ma fermandoci alla sola Iva, se fosse versata come in Svezia, dove l’evasione è pari a zero, l’Italia potrebbe permettersi un sostegno intelligente ai più poveri, giusta attenzione alle famiglie con figli, un taglio dell’Irpef per tutti, forse anche qualche sconticino previdenziale e, magari, potrebbe rimanere anche qualcosa per ridurre il debito. Certo, non tutti sarebbero contenti, e gli effetti non sarebbero immediatamente positivi.

Ma l’esempio può aiutare a mettersi in un certo ordine di idee. L’alternativa alla strada sostenibile è attingere ancora di più al deficit, come si è fatto in passato. La scorciatoia, per un Paese con un debito molto alto, ha però una controindicazione: se si vuole andare con i conti in 'rosso' ci si deve far prestare i soldi da qualcuno, cioè è necessario indebitarsi rivolgendosi ai 'mercati'. Ma, come si dovrebbe insegnare a scuola, una volta che ci si affida totalmente al mercato bisogna saper rispettare le sue regole. E in caso di crisi, o di tensioni successive, poi non si può dare la colpa a qualcun altro.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: