giovedì 5 ottobre 2017
L’Europa, la Catalogna e qualcosa da ricordare Caro direttore, l’Europa è nata per finalità politiche. Una prima di ogni altra. Che i popoli europei non si facessero più guerre
Ma le «piccole patrie» hanno già perso
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L’Europa, la Catalogna e qualcosa da ricordare Caro direttore, l’Europa è nata per finalità politiche. Una prima di ogni altra. Che i popoli europei non si facessero più guerre. Quei popoli usciti da due guerre mondiali fratricide, che l’avevano distrutta e portata dal centro incontestabile ai margini della geopolitica, appannaggio di altre potenze mondiali (con la Gran Bretagna aggregatasi in modo preferenziale agli Usa nell’illusione di continuare a essere, così, in proprio, una grande potenza).

L’unione economica era la strategia con cui avviare questo processo di unificazione europea, non la finalità tutta politica e geopolitica negli intenti dei fondatori. La negligenza degli egoismi statali e nazionali nel far camminare l’unificazione politica, via via illudendosi sempre più di supplirla con la leva economica (l’euro, senza però alle spalle uno 'Stato europeo' vero in alcune funzioni fondamentali, a cominciare da una difesa comune), ha portato l’Europa a essere vista sempre più come una sovranità dei mercati, lontana dai popoli. E al momento della crisi del welfare europeo ha generato un doppio populismo.

Quello dei ceti impoveriti da una globalizzazione che è crisi dell’Europa innanzi tutto, non del mondo, e che spingono i propri Stati a uscire dall’Europa stessa, vedendo quindi nello Stato nazionale, e nella sua sovranità, una difesa dalle difficoltà di una globalizzazione che ne peggiora la vita. E quello dell’indipendentismo delle regioni 'ricche' (ideologicamente rilanciate come 'piccoli patrie') che vedono nella possibilità di agganciarsi in proprio all’Europa lo strumento per difendere, nella crisi della globalizzazione, il loro miglior status economico rispetto ai connazionali sottraendosi alla ridistribuzione statale del loro surplus fiscale.

Questo populismo dei ricchi (che si veste di merito competitivo in uno sgrammaticato calvinismo di Stato, dove il successo economico deve garantire la salvezza tutta terrena dai pedaggi collettivi nazionali pagati alla globalizzazione) aggraverà le spinte antieuropee del populismo dei poveri (populismo che invece andrebbe sminato in una visione solidale degli Stati-nazione di appartenenza e dell’Europa) e rischia di generare una 'guerra di classe' europea tra territori tra Stati e loro regioni - il cui esito potrebbe persino tornare a essere il conflitto armato. In Catalogna si stanno facendo le prove generali di questo scenario demoniaco, preparato dalla bassa qualità del ceto politico al potere a Barcellona come a Madrid.

Una povertà di leadership all’altezza dei tempi, che c’è già costata la Brexit, e in Italia si materializzerà da qui a poco con il referendum lombardoveneto per l’autonomia, che è un altro modo di dire che un pezzo di un pezzo di Nord, che deve il suo successo al Paese che gli si è costruito attorno in un secolo e mezzo, ma a quel Paese non vuol più contribuire con un euro di surplus fiscale (salvo una mancia del 10% pare, praticamente la 'decima' della pietà religiosa tradizionale: una contribuzione morale, prima ancora che politica). In questo quadro ha ragione il presidente catalano Puigdemont, affermando che la Catalogna è un problema europeo e che l’Europa, rispetto a quel che sta succedendo, «non può più voltarsi dall’altra parte». Ha ragione. Però non nel senso da lui sperato. Al di là delle insufficienze del governo spagnolo, nella gestione della crisi, è venuta per l’Europa l’ora di non voltarsi dall’altra parte, di riscoprire l’anima e la finalità politica per cui è nata.

E di dichiarare a chiare lettere che non ci sarà spazio in Europa per chi si metterà fuori dagli Stati nazionali che l’hanno voluta e costruita. E che in Europa non c’è sponda per chi non vede gli scontri fratricidi che prepara. In Europa si sta alle condizioni della modernità, non in un nuovo medioevo di Città-Stato (le 'piccole patrie') che dialogano con un Impero imbelle (di cui più nessuno sentirebbe il bisogno) a scapito degli Stati nazionali. Per altro, le piccole patrie – a torto o a ragione, e se la storia ha una sua necessità a ragione, che non è un giudizio morale – hanno già perso una volta. È stupido ripercorrere tragedie il cui esito sarebbe già scritto, e che per altro distruggerebbero le stesse condizioni della ricchezza che s’intende tenersi stretta. Sempre che l’Europa voglia continuare a vivere e non voglia assistere impotente al 'liberi tutti' regolato nei suoi esiti nelle piazze del conflitto 'civile'.

*Ordinario di Filosofia teoretica, Università Federico II

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