Ma l'arte non può e non deve finire in ostaggio dei sentimenti della guerra
mercoledì 7 dicembre 2022

«Come posso salire sul podio e dirigere una partitura di Ciajkovskij quando gli invasori russi mi hanno ucciso i genitori?». È comprensibile lo sfogo che Ivan Cherednichenko aveva affidato ad “Avvenire”. E anche la sua decisone presa d’intesa con i vertici dell’Opera di Leopoli, di cui è la bacchetta principale: nella sala della città ucraina non troverà più posto la musica di Mosca e dintorni. Troppa l’angoscia che certi capolavori provocano quando la guerra si mescola con l’arte e la corrode. Un dolore comparabile a quello che ancora provano i sopravvissuti alla Shoah ascoltando la musica di Wagner, l’irrequieta penna tedesca che è stata una sorta di spartiacque nella storia della musica ma anche un antisemita convinto, le cui partiture sarebbero diventate, nonostante i suoi ideali anarchici, la colonna sonora del Terzo Reich.

Sofferenza e strumentalizzazione politica sono le dimensioni che si intrecciano anche nel titolo di apertura della stagione lirica al teatro alla Scala di Milano su cui oggi alle 18 si alzerà il sipario: Boris Godunov di Musorgskij. Ne sono ben consapevoli il sovrintendente Dominique Meyer, attento e dialogico manager, e il direttore musicale Riccardo Chailly che dalla prima versione dell’opera, datata 1869, più aspra e asciutta delle successive rivisitazioni, è stato conquistato. Entrambi ripetono da settimane che non c’è nulla di anti-ucraino in un progetto nato tre anni fa o che mettere in scena un’opera russa non significa sostenere la politica di Putin. Ed entrambi sono coscienti che la Scala può essere bersaglio di critiche – per una scelta artistica che a taluni è apparsa imprudente e si è portata dietro persino l’anatema del console ucraino a Milano – e che il Cremlino potrebbe fare della Prima un palcoscenico della sua propaganda. «Leggete il libretto », ribattono a chi alimenta le polemiche.

C’è, sì, nel Boris la tragedia personale di uno zar usurpatore al centro del “periodo dei torbidi”, ma c’è anche una lezione che può tornare utile per capire alcune dinamiche della Russia di oggi: dall’ossessione per le congiure alla manipolazione del popolo, da una visione di Stato che schiaccia l’uomo alle commistioni ecclesiali. Allora resta la domanda: era (ed è) opportuno inaugurare il cartellone di uno dei più insigni teatri lirici nel mondo con un capolavoro divisivo? In Ucraina l’aggressione pianificata da Mosca ha scatenato una furia iconoclasta contro la letteratura o la musica russa che sta cancellando anche dalle strade ogni accenno al “nemico”, compreso il nome di Puškin che ha ispirato Musorgskij. Una reazione che, con i necessari distinguo, richiama appunto il complesso rapporto fra Wagner e il mondo ebraico.

I drammi del genio germanico rimangono un tabù in Israele dove – per citare qualche caso recente – una banca è stata costretta a ritirare uno spot che aveva come sottofondo la Cavalcata delle Valchirie, oppure la radio pubblica si è dovuta scusare per avere trasmesso il Crepuscolo degli dei. Perché le composizioni del vate di Bayreuth continuano a essere associate al delirio del suo pamphlet Il giudaismo nella musica in cui si descrive l’influenza «corruttrice » del popolo eletto oppure all’appropriazione nazista dell’autore del Ring imposta da Hitler che aveva elevato i Maestri cantori a inno del partito o faceva suonare la marcia funebre di Sigfrido nelle esequie dei gerarchi.

Eppure una risposta a censure e pregiudizi, che come macigni possono abbattersi sull’arte contaminata da un conflitto, arriva ancora dalla comunità ebraica che indica come andare oltre le ferite della storia. Lo dice ad esempio il Museo ebraico di Berlino che a Wagner riserva una sezione per raccontarne non solo il volto “nero” ma soprattutto l’ammirazione che la sua grandezza musicale suscita in eminenti figure dal sangue ebraico: da Theodor Herzl ad Arnold Schönberg. E lo dice uno dei maggiori direttori d’orchestra contemporanei, Daniel Barenboim, ebreo anche lui, contestato per aver eseguito pagine del padre della “musica dell’avvenire” a Gerusalemme: «Quando si continua a sottoscrivere l’ostracismo su Wagner in Israele, significa che concediamo ancora l’ultima parola a Hitler». Intuizione da tener cara di un maestro che ha compiuto 80 anni a novembre, che si è appena ritirato dalle scene e che della Scala è stato amato direttore musicale con gli spartiti di Wagner spesso sul leggio.

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