Normale è la via di Damasco
sabato 2 dicembre 2017

C’è bisogno di un amore infinito per rinunciare a sé e "divenire finito", incarnarsi per amare così l’altro, e l’altro come altro finito
Jacques Derrida, Donare la morte


I capitali narrativi sono plurali. Non tutte le storie di cui si compongono hanno lo stesso valore. Solo alcune sono capaci di portare il peso della nuova costruzione. Il "grano" e la "zizzania" si trovano in tutti i campi della terra, compresi quei campi speciali dove crescono i nostri ideali. All’inizio occorre far crescere tutte le piante del campo, perché – come dice la grande metafora evangelica – se i contadini intervenissero per estirpare la zizzania strapperebbero via anche le spighe buone e preziose. Conservare tutte le spighe di grano buono è un dovere vitale e un imperativo morale dei fondatori e della prima generazione di una comunità e di una Organizzazione a movente ideale (OMI), e questa giusta preoccupazione di conservare l’interezza dell’esperienza e del suo capitale narrativo fa sì che quando la fase della fondazione termina, il raccolto comprende buon frumento mescolato a zizzania. Quindi l’eredità che i fondatori ci lasciano è sempre una eredità di grano
e di gramigna.


Alcune organizzazioni si estinguono perché, già nella fase originaria, non sanno convivere con la zizzania e la inevitabile impurità delle incarnazioni. Così cercano di separare subito le erbe cattive da quelle buone e non consentono che tutti i semi giungano alla giusta maturazione. Anche perché, a differenza dei semi e dei campi veri, le componenti genuine delle nostre idealità si riescono a distinguere da quelle cattive solo con il passare del tempo, e spesso ciò che all’inizio sembrava zizzania è poi fiorito in grano, e viceversa. Gli ideali crescono bene solo contaminandosi con tutte le erbe vicine. Si nutrono delle stesse sostanze, vivono in osmosi con alberi diversissimi e, qualche volta, anche con funghi velenosi (per chi li mangia, ma non per la pianta). A volte sono fiori e piante così delicate che riescono a crescere solo perché protette dall’ombra di alberi meno nobili ma più resistenti all’arsura. Soltanto i bonsai riescono a vivere nei luoghi asettici dei nostri salotti. Non portano frutti, non hanno radici, non crescono. Le storie vere sono scritte con interi capitoli di romanzi scritti da altri e con brani di miti di "culti pagani" circostanti. Nessun capitale narrativo è interamente nuovo. La maggior parte delle sue idee e delle sue storie sono eredità, anche quando soggettivamente chi scrive una nuova storia non ne è pienamente cosciente (perché teme che riconoscere il dono del passato sminuisca la novità). Chi inizia a vivere e a raccontare una storia comunitaria, aziendale, politica, eredita e genera grano e zizzania.

Ma – e questo è il processo più delicato e cruciale – chi viene dopo la stagione della fondazione tende quasi inevitabilmente a individuare la zizzania soltanto nella prima eredità, cioè nelle idee e nelle storie che i fondatori hanno trovato come materiali preesistenti la loro casa nuova, e a considerare tutto grano buono quanto prodotto dal fondatore. Tentano così una prima separazione cercando la zizzania soltanto "fuori" e "prima", non "dentro" e "durante" le parole originali del fondatore. In alcuni casi si finisce così per scrivere un nuovo capitale narrativo eliminando completamente le vecchie storie "contaminate" ereditate dal passato e dall’ambiente, componendo nuove storie utilizzando soltanto quelli che si pensa essere materiali inediti e originali. E così la zizzania presente anche dentro le nuove idee e le storie della fondazione cresce indisturbata perché confusa con il grano. Finché un giorno i frutti buoni finiscono (nuovi membri e vocazioni), soffocati dalla zizzania sotto mentite spoglie di grano.

Qualche volta, giunta a questa fase di carestia narrativa, la comunità post-fondazione ha il dono e la forza di intuire che se vuole sperare di salvarsi deve iniziare coraggiosamente la separazione grano/zizzania anche all’interno del capitale narrativo originale del fondatore. Non senza resistenze interne, inizia ad avere uno sguardo più maturo e "distante" su idee, scritti e storie della fondazione, in cerca del grano veramente buono. Ma anche in queste operazioni necessarie è molto facile ritrovarsi con zizzania scambiata con grano. E ciò dipende da un errore molto comune. Si pensa che la parte vera e buona del capitale narrativo si trovi nei suoi elementi più spettacolari e sensazionali, e quindi si strappano via le componenti più sobrie, semplici, povere, ordinarie. Un errore grave e diffuso soprattutto nelle esperienze nate da carismi spirituali e religiosi. In queste storie di fondazione, ci sono eventi, fioretti, narrazioni che più hanno colpito l’immaginazione degli stessi fondatori e poi i sentimenti dei loro primi seguaci. Spesso sono legati a fatti che si trovano al confine tra naturale e soprannaturale, tra l’ordinario e il miracoloso. In alcuni casi assumono la forma di racconti di visioni o di rivelazioni speciali e in genere segrete, non di rado di tipo gnostico e misterico.

Ogni fondazione, soprattutto se originata da un carisma ricco e profondo, è circondata da questa componente di narrazione. Anche la Chiesa dei primi tempi, ad esempio, abbondava di tali racconti, di cui si è anche nutrita e arricchita. Arrivò, però, il momento quando i primi cristiani dovettero governare la proliferazione di questa componente narrativa spettacolare e miracolosa. Così tra i molti racconti che circolavano in quei secondi e terzi tempi scelsero soltanto quattro vangeli e pochi altri testi. Oggi sappiamo che alcuni (forse molti) episodi e parole contenute nei vangeli apocrifi e gnostici non erano meno "veri" dei fatti e delle parole conservate nei testi canonici. Molti erano racconti fioriti in epoca più lontana dai primi fatti storici, quando alcuni iniziavano a pensare che il primo sobrio ed essenziale kerigma non fosse abbastanza spettacolare e segreto per convertire e conquistare. Ma senza quella operazione di separazione e di discernimento la Chiesa primitiva sarebbe stata divorata dai propri stessi racconti. La parte più sensazionale che circolava attorno alla vita di Gesù e degli apostoli avrebbe mangiato i racconti troppo sobri di una giovane donna di Nazareth, beatitudini per poveri e afflitti, il racconto della passione e quindi della resurrezione, che sarebbe stata equiparata ai tanti miracoli di Gesù, a quelli simili dei falsi profeti e dei maghi, o alla "resurrezione" di Lazzaro. Nell’abbondanza di racconti straordinari, quelle prime comunità dovettero "sacrificare" alcuni fatti veri o probabili per salvare la novità della propria storia capace di generare presente e futuro. Non è certo un caso che la resurrezione di Gesù sia accompagnata da pochissime descrizioni. Sulla scena troviamo poche donne impaurite, un giovane con una veste bianca, un giardiniere, uomini increduli. I manoscritti più antichi del vangelo più antico si concludevano con queste splendide parole, a commento del sepolcro vuoto visto dalle donne: «E non dissero niente a nessuno» (Marco 16,8). Nelle lettere di Paolo non si trovano racconti dei miracoli di Gesù, ma solo quello di un "miracolo" di un crocifisso-risorto vivo incontrato lungo la strada.

Nei momenti di crisi di storie da raccontare, è troppo facile pensare che le nuove storie di oggi dovranno partire dai racconti più eclatanti di ieri. Ci si illude che raccontare i miracoli passati sia sufficiente per generare i nuovi "miracoli" che servirebbero oggi per continuare il cammino, e che non ci sono. Come se per far rivivere la realtà originaria bastasse semplicemente ricordare le gesta speciali di ieri, e non riviverle. Si cade in una sindrome consumista, che è tanto più probabile e tentatrice quanto più ricco di eventi speciali è stata la fondazione, che rischia di bloccare la generazione successiva nel consumo goloso di ricordi sterili. Un’altra maledizione delle risorse: più è colorato il passato, più sbiadito rischia di diventare il presente vissuto consumando il passato, dimenticando il futuro. Qui l’errore fatale sta nella mancata comprensione che i doni speciali ricevuti nella fase fondativa erano soltanto "la dote" per le nozze dalle quale poi è nata una vita nuova bellissima perché ordinaria e possibile per tutti. Sono esperienze uniche e irripetibili perché legate alla rivelazione della vocazione "profetica" dei fondatori. L’eredità feconda che i fondatori ci lasciano non è la loro dote ricevuta in dono, ma la vita nata da quelle nozze. È un figlio vivo, non un luccicantissimo, sterile, diamante.

Quando si cade in questo errore la parte straordinaria del capitale narrativo, che è anche parte dell’eredità, diventa "moneta cattiva", non perché cattiva o falsa in sé stessa, ma perché, in una nuova versione dell’antica Legge di Gresham, "scaccia" la "moneta buona" del lavoro faticoso di chi sta cercando con serietà e umiltà di provare a scrivere una nuova bella normalità nella vita dopo la crisi delle prime storie. Questo lavoro di scrittura di capitale narrativo generativo viene spiazzato dai venditori dei ricordi degli effetti speciali e dei fuochi d’artificio dei primi tempi che ora non ci sono più. Non è stato il cane lupo che appariva a Don Bosco a generare il grande movimento educativo salesiano; questo è nato soprattutto dal normalissimo "fischio" che il giovane Giovanni Bosco generò nel ragazzo Bartolomeo. Non sono stati i fioretti e neanche le stigmate di Francesco a generare e rigenerare il movimento francescano, ma la radicale e tenace fedeltà di Francesco a "madonna povertà" del Vangelo. Isaia non ha salvato e nutrito il suo popolo con il racconto della visione di Serafini nel Tempio il giorno della sua vocazione, ma con l’umile profezia di un bambino e di un piccolo resto fedele, che hanno alimentato la speranza non-vana durante gli esili, e che oggi continuano a nutrire la nostra attesa amante che non termina mai.

Le esperienze sensazionali e straordinarie della fondazione sono semi bellissimi che però non si riproducono, e tendono solo a proiettare l’OMI verso il passato, a renderla dipendente da sostanze stupefacenti. Il nuovo buon capitale narrativo non è quello dei ricordi dei miracoli di ieri, ma quello generato dai nuovi racconti della vita vera e semplice di oggi. Nelle crisi di capitali narrativi le risorse residue sono sempre poche. Una OMI si salva se non le investe nel consumo dei propri racconti straordinari del passato, perché capisce che il grano buono si trovava dentro la vita normale dei primi tempi, in quei fatti che possono ancora germogliarne molti altri perché talmente straordinari da essere ordinari, così finiti da poter essere veramente infiniti. Il racconto di un uomo crocifisso, di un amico di peccatori, di pescatori, di chi perdona, di chi è perdonato, di comunità che vivono semplicemente l’amore scambievole. È solo su queste normali e polverose strade di Damasco dove è ancora possibile cadere da cavallo.

l.bruni@lumsa.it

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