venerdì 6 marzo 2015
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Con il petrolio a cinquanta dollari il mondo non è diventato un posto migliore. Il recente crollo delle quotazioni ha innescato una competizione internazionale che spinge a interrogarsi su quali potrebbero essere i futuri assetti strategici e geopolitici. Gli analisti si chiedono se a spuntarla saranno gli Stati Uniti o la Russia, l’Arabia Saudita o l’Iran.  Ma la partita più dura si gioca probabilmente in Africa subsahariana. In un ipotetico nuovo ordine mondiale, infatti, le potenze sopra citate vedrebbero profilarsi scenari più o meno favorevoli, ammesso che i prezzi rimangano così bassi, ma il Continente Nero rischia di vedere sfumare innanzitutto un’occasione di riscatto.  A partire dall’inizio del secolo la scoperta di nuovi giacimenti e lo sviluppo di quelli esistenti hanno favorito nella regione tassi di crescita secondi solo a quelli dell’Asia emergente. Molti governi africani ne hanno approfittato per modernizzare le rispettive economie e tradurre i benefici di questa espansione economica in un aumento dei redditi, di posti di lavoro e in migliori servizi educativi e sanitari per i loro cittadini.   Secondo l’Agenzia internazionale per l’energia, il 30 per cento dei giacimenti di petrolio e gas scoperti negli ultimi cinque anni si trova in Africa subsahariana, regione che conta già alcuni tra i maggiori produttori mondiali, quali Nigeria e Angola. Non è un caso che proprio questi ultimi Paesi siano quelli più colpiti dalla caduta dei prezzi del greggio. Nei giorni scorsi il generale deprezzamento delle materie prime ha spinto il Fondo monetario internazionale a tagliare le sue previsioni di crescita per la parte centromeridionale del Continente africano, portandole al 4,9 per cento dal 5,8 per cento stimato a ottobre e rispetto al 5,2 per cento nel 2016. Allo stesso tempo il Fondo ha rivisto drasticamente le previsioni sulla Nigeria, tagliandole al 4,8 per cento dal 7,3 per cento ipotizzato in precedenza. Già nel suo ultimo rapporto, il Fmi avvertiva come Nigeria, Angola, Repubblica Democratica del Congo, Gabon, Sud Sudan e Guinea Equatoriale siano fra i Paesi africani più esposti ai rischi di un rallentamento economico. Questo perché dipendono dalle oscillazioni del greggio più di altri 'Stati petroliferi' mondiali, sia sul lato delle entrate fiscali sia su quello delle esportazioni. E siccome nella regione i contrasti sociali sono ancora fortissimi, i rimedi devono essere pensati in modo da evitare conseguenze peggiori.   Un eccesso d’austerità potrebbe inasprire le disuguaglianze, minacciando la stabilità e compromettendo il potenziale di sviluppo. In prima linea c’è proprio la Nigeria, la nazione più popolosa del Continente, già vittima dell’offensiva sempre più implacabile degli islamisti di Boko Haram. Il Paese Opec è il maggiore produttore dell’Africa subsahariana.  Le sue riserve sono stimate tra i 16 e i 22 miliardi di barili. Il governo di Abuja genera il 75 per cento delle proprie entrate fiscali dal petrolio, ma queste sono crollate di pari passe con le quotazioni dell’oro nero. Il Fmi ha auspicato che dopo le prossime elezioni il governo tagli i sussidi sulla benzina, approfittando anche del prolungato calo del greggio, che andrebbe a riequilibrare il prezzo dei carburanti. Nelle scorse settimane il prezzo della benzina è stato abbassato, ma per il momento i sussidi non sono stati toccati. Il ministero del Petrolio ha precisato che la decisione è stata presa come «riflesso della realtà economica globale» e non per fini elettorali. Fra le ragioni del mancato gettito c’è anche l’aumento della produzione americana, che ha portato a una diminuzione della domanda da parte degli Stati Uniti.   Nonostante gli sforzi del governo resta inoltre irrisolto il problema dei furti di petrolio. Come se non bastasse, i timori sulla tenuta dell’economia nigeriana, tanto dinamica quanto fragile, hanno provocato una fuga di capitali e l’anno scorso la moneta locale è crollata. Per difendere la Naira, la banca centrale ha dovuto impiegare il 15 per cento delle proprie riserve. A novembre l’istituto ha alzato i tassi d’interesse al livello record del 13 per cento, ma ciò non è bastato a tenere a freno la corsa dell’inflazione, che a causa del deprezzamento della moneta potrebbe raggiungere quest’anno la doppia cifra.  Il governo dell’Angola si è invece rassegnato a varare una manovra correttiva sui conti pubblici, per compensare le pesanti ricadute sulle entrate derivanti dal crollo dei prezzi del petrolio di cui è il secondo maggiore produttore dell’Africa subsahariana. L’80 per cento del gettito fiscale del Paese deriva dall’oro nero e il bilancio 2015 era stato varato prendendo a riferimento un barile a 81 dollari. Nella nuova bozza, basata su un prezzo medio di 40 dollari al barile, il governo ha proposto un taglio pari a 17 miliardi di dollari.  L’esecutivo prevede ugualmente un deficit pari al 7 per cento del Pil, con una crescita stimata al 6,6% e un tasso d’inflazione all’8 per cento.   Non la pensano così alcuni economisti, che pronosticano invece una crescita del tre per cento quest’anno, dopo il quattro per cento del 2014 e il picco del 12 per cento registrato nel 2012. La legge dovrà essere ratificata dal Parlamento.  Più di un angolano su due, il 54 per cento della popolazione, vive con meno di due dollari al giorno e il miglioramento delle condizioni di vita è uno dei punti chiave promessi dal presidente José Eduardo, che nel 2017 dovrà ripresentarsi alla prova del voto elettorale. Anche in Africa esiste però il rovescio della medaglia: i Paesi importatori, fra cui soprattutto il Kenya e la Costa d’Avorio, potrebbero beneficiare della nuova congiuntura grazie a un taglio significativo della bolletta energetica. Infine, ci sono i Paesi protagonisti delle scoperte più recenti, in bilico fra la minore convenienza dei propri giacimenti, a causa del dimezzamento dei prezzi del petrolio, e la volontà delle compagnie di continuare a scommettere su di essi: fra questi Ghana, Ciad, Niger, Uganda e lo stesso Kenya, oltre al Mozambico dove è presente in forze l’Eni. Il colosso petrolifero italiano è il primo operatore internazionale del settore in Africa. La società ottiene nel continente oltre la metà della propria produzione complessiva. Dal 2008 al 2013, Eni ha scoperto a livello mondiale 9,5 miliardi di barili di nuove risorse, buona parte dei quali nel continente africano. Le scoperte più importanti sono state effettuate in Angola, Congo, Gabon, Ghana e appunto in Mozambico, dove Eni ha effettuato la più importante scoperta di gas della sua storia: circa 2.400 miliardi di metri cubi, corrispondenti a oltre 30 volte la domanda annua italiana.
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