martedì 20 novembre 2012
COMMENTA E CONDIVIDI
Sul parere di una sezione del Consiglio di Stato relativo agli enti non profit, Avvenire ha svolto una funzione informativa e critica di grande rilievo. Ma altri commenti di stampa non hanno colto la gravità della pronuncia che potrebbe provocare un arretramento complessivo delle attività del Terzo settore italiano. Sembra una pronuncia priva di logica e di memoria. Chiunque prenda in mano un qualsiasi manuale, anche tecnico, della materia leggerà subito che con più atti normativi degli ultimi decenni il legislatore ha fatto una scelta strategica a tutela di quei soggetti che si impegnano in ambiti sociali difficili, in modo alternativo allo Stato e al mercato, in quanto essi agiscono senza fini di lucro. Questa è la motivazione primaria che ha portato a riconoscere il Terzo settore e il suo valore sulla base del principio di sussidiarietà presente nella nostra Costituzione e nella normativa europea. Senza questa caratteristica primaria, dell’assenza del fine lucrativo, il mondo del non profit non esisterebbe nella forma attuale, non avremmo la promozione di attività sociali, culturali, assistenziali, che raccolgono energie, mettono i loro frutti a disposizione della collettività, rinunciano a usare privatamente il profitto.Quando al Consiglio di Stato si afferma che l’assenza del fine di lucro non è più dirimente per distinguere le attività non commerciali da quelle commerciali, non sancisce solo una disparità nei confronti di chi si impegna senza obiettivi di guadagno a favore della collettività, ma realizza una inversione di tendenza, un vero salto indietro rispetto alla scelta del legislatore di favorire quelle attività che né il mercato né lo Stato riescono a realizzare pienamente. Occorre ben riflettere, perché se passasse questa logica, sarebbe rimessa in discussione non soltanto la questione dell’Imu, ma l’opzione favorevole a chi vuole agire per un impulso sociale altruista. L’orientamento di una sezione del Consiglio di Stato è criticabile sul piano della coerenza logica. Sottoporre allo stesso carico fiscale chi agisce con fini di lucro e chi senza, determina uno scompenso: perché i primi avranno sempre un vantaggio quando incasseranno il guadagno, ma i secondi – oltre a non guadagnare – vedranno depotenziati i mezzi a loro disposizione e messa a rischio la stessa scelta non profit. Chi conosce l’argomento sa quanto sia ampia l’area dell’esenzione fiscale in altri Paesi, ad esempio negli Stati Uniti d’America, per tutto ciò che è sociale, donativo, non lucrativo, e il richiamo a una mentalità fiscalista (minoritaria anche in Europa) per giustificare ostacoli e restrizioni è in contdrasto con le scelte di grandi economie di mercato. Su questo aspetto, dei diversi punti di partenza e di arrivo (esistenza o meno degli utili), si sorvola e si preferisce ridurre l’analisi a un orizzonte puramente econometrico.  Ma il Consiglio di Stato non si è soffermato neanche sull’altro aspetto della questione, sugli ambiti di attività e del Terzo settore, che non possono essere soddisfatti a livello pubblico o mercantile. Si pensi soltanto al mondo dell’immigrazione, per il quale le strutture religiose e laiche svolgono in Italia una funzione di ammortizzatore sociale di eccezionale rilevanza, riconosciuta a livello nazionale ed europeo. Soprattutto per esse, gli immigrati ricevono un primo sostegno in termini di accoglienza individuale, fruiscono di una rete di assistenza che promuove il collocamento al lavoro, agisce a favore delle famiglie e delle comunità territoriali. Si assolve così a una funzione di integrazione che né lo Stato né il mercato potrebbero garantire, e che ha evitato all’Italia lacerazioni e conflitti che hanno diviso altri Paesi europei. Quanto ne guadagna l’economia reale e la società nel suo complesso? La risposta deve pur essere data se non si vuole perdere memoria dei bisogni, e della complessità, di una società multiculturale nella quale siamo immersi.Sta qui la gravità di una pronuncia che ha disatteso una scelta legislativa volta a favorire impegno solidale e attività economica, coesione sociale e benefici collettivi. Siamo di fronte a una vicenda tutt’altro che chiusa, perché richiede interventi di verità e di coerenza da parte italiana, per spiegare che i principi di sussidiarietà, e di integrazione, contenuti nelle carte fondative d’Europa esigono politiche coerenti a livello continentale e nazionale.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: