venerdì 8 luglio 2011
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Finalmente alla Camera dei deputati sono iniziate le votazioni sulla proposta di legge sul "fine vita" e puntualmente è tornato ad affacciarsi sulla prima pagina della "Repubblica" Stefano Rodotà, con il compito di vituperarla. Questa volta, però, sembra proprio che Rodotà abbia passato ogni limite nella sua, aggressività verbale, peraltro ormai ben nota: la legge sarebbe «ideologica, violenta, bugiarda, sgrammaticata, incostituzionale». Basta? Certo che no. A questa sfilza di complimenti, Rodotà ne aggiunge altri: la legge disprezzerebbe l’opinione pubblica, sarebbe la «quintessenza di un dispotismo etico», rifletterebbe «un fondamentalismo cattolico incomprensibile», farebbe «scempio» del «diritto fondamentale» all’autodeterminazione, trasformerebbe le dichiarazioni anticipate di trattamento in «macchine inutili, frutto di un delirio burocratico» e attraverso di essa il presidente del Consiglio «e la sua docilissima schiera» metterebbero «le mani sul corpo di ciascuno di noi». Potrei continuare con le citazioni.Credo che sia molto difficile convincere Rodotà ad assumere toni laicamente più sobri e, pur criticandola, a manifestare un minimo di rispetto per una proposta di legge che è comunque condivisa da un consistente e maggioritario numero di deputati, tra i quali vanno annoverati anche – e Rodotà lo sa benissimo – non pochi rappresentanti dell’opposizione. Un testo – particolare di non poco conto, anche se Rodotà finge di non notarlo – che a ogni scrutinio segreto raccoglie ulteriori adesioni di coscienza e, dunque, procede nel suo iter con un consenso trasversale ancora più ampio del previsto. E credo anche che ormai sia un’impresa disperata aprire un dialogo con lui. Non certo perché non si possano smontare, senza troppe difficoltà, le sue argomentazioni (lo testimoniano diversi editoriali su questo tema apparsi su "Avvenire" e tutti sistematicamente ignorati da Rodotà), ma perché non vale la pena farlo. Che senso mai può avere cercare di ragionare pacatamente con chi usa espressioni parossistiche come quelle che ho citato? O ricordare all’illustre collega che non è corretto invocare l’autorità di «cento giuristi» ostili alla legge, facendo sprofondare gli studiosi di diritto che hanno una diversa opinione (e ce ne sono tanti!) nel limbo dei non giuristi o dei giuristi non meritevoli di attenzione alcuna? O imputargli la curiosa citazione di un documento della Conferenza episcopale tedesca, da lui utilizzato solo per contrapporre scorrettamente l’opinione dei vescovi tedeschi a quella delle «gerarchie vaticane»?La sostanza della questione è una sola ed è sempre la stessa. Non si tratta di dire di no alle Dichiarazioni anticipate (che qualcuno chiama, forzando, Testamento biologico), ma di regolarle per legge in modo intelligente ed equilibrato, come capì benissimo, a suo tempo, il Comitato nazionale per la bioetica, quando formulò un parere che, proprio per il suo equilibrio, fu condiviso da laici e cattolici. Prima di insistere sul diritto, di rango costituzionale, a rifiutare qualsiasi trattamento sanitario (diritto pensato dai padri costituenti con riferimento a soggetti lucidi, capaci, consapevoli, adeguatamente informati), prima di dipingere irreali scenari di espropriazione del nostro corpo, riflettiamo con un po’ di buon senso alle specialissime condizioni in cui si trova una persona che, avvicinandosi alla fine della sua vita, abbia perso coscienza. Un suo "testamento biologico", magari redatto molto anni prima, può aver perso di attualità o può essere stato sottoscritto in condizioni di incredibile fragilità psicologica, economica, sociale e mentale, tali da renderne molto discutibile l’attendibilità o anche sulla base di informazioni inadeguate, frettolose o carenti. Come pretendere di rendere «vincolante» un documento che può avere caratteri così problematici? È più che giusto che un medico «tenga conto» (come dice la Convenzione di Oviedo) delle dichiarazioni anticipate ed è giustissimo obbligarlo a motivare in forma scritta perché le osservi o perché non le osservi, ma non lo si può vincolare a un’ ubbidienza cieca e passiva nei confronti dei desideri di un paziente incompetente, più di quanto non abbia senso vincolarlo a quelli di pazienti pur capaci di intendere e di volere. La questione è tutta qui ed è di questo soltanto che dobbiamo discutere: esaltare l’autodeterminazione nei momenti di fine vita o è un’imperdonabile ingenuità illuministica o è un ancor meno perdonabile tentativo di introdurre surrettiziamente l’eutanasia nel nostro sistema giuridico, senza avere il coraggio di chiamarla col suo proprio nome.
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