giovedì 7 aprile 2011
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Centinaia di morti annegati. L’ultima tragedia del mare, del mare "nostro", divenuto troppo spesso negli ultimi anni una azzardata via di scampo verso la speranza a prezzo del rischio di morte, adesso chiede forse qualcosa di più del pianto e del raccapriccio. Le testimonianze dei sopravvissuti dicono la concitata e torturante sequenza del naufragio, l’acqua che invade il barcone, il panico e il rovesciamento, i corpi avvinghiati nel buio notturno tentando di raggiungere a nuoto, chi poteva, le motovedette di soccorso. Famiglie, bambini. Le onde, l’indomani, restituiscono i fragili corpi uccisi. Gli altri non si trovano, in 250 mancano alla conta; non è difficile capire che il mare li ha inghiottiti.Venivano dalla Libia, dove c’è la guerra, ma non erano libici: erano eritrei e somali, ma anche nigeriani, cittadini del Bangladesh, della Costa d’Avorio, del Ciad e del Sudan. Luoghi più remoti, luoghi che evocano non solo fame, ma guerra e sangue e disperazione; e lunga peregrinazione sulle carovaniere, fino alla costa, dove tentavano il salto e il destino affidando la vita alle carrette del mare. Così accade, e quando il mare è buono si tocca terra, quand’è cattivo si può finire annegati.Ma non è la traversata l’insidia estrema. È il rifiuto, è lo scoprirsi e il sapersi rifiutati, il dover muoversi nell’ombra, appoggiarsi a scafisti simili a moderni predoni, a prezzo d’esser spolpati all’osso; è il cercare approdo a nuove terre dove frattanto il pensiero dominante s’ingegna a trovar modo di rintuzzarli, e poi di rimandarli; e quando si dà accoglienza ai migranti approdati, il problema dello stanziamento pur provvisorio vede in gara Regioni (d’Italia) e Stati (d’Europa) per chiamarsi fuori; se è necessario si accolgano, ma "non nel mio cortile".Il problema delle migrazioni, in particolare quello dall’Africa esploso nel primo scorcio del terzo millennio, non può certo ignorare le difficoltà oggettive e sognare di colpo un mondo senza frontiere. L’accoglienza esige d’esser governata, insieme con i progetti di integrazione. Ma quando il pensiero fisso dei Paesi d’arrivo fa del proprio vantaggio l’unico criterio di "sostenibilità" dei flussi accettati, giustizia vorrebbe che si rispondesse anche alla domanda "se è sostenibile la vita" nei Paesi di partenza. A chi fugge da guerre, da persecuzioni di qualunque genere, l’articolo 14 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo assicura il diritto d’asilo; respingere costoro significa tenere la parte di chi li perseguita, li tortura e li uccide. Fin che l’Onu non sa impedire le guerre, ciò che l’umanità promise 60 anni fa, dopo gli olocausti, è delusione e rimorso. Ma c’è anche la tortura della fame, della malattia, della miseria, e il desiderio di vivere, di dare il proprio apporto sociale; respingerli semplicemente, significa ripiombarli nella miseria, nella malattia, nella fame.Fin che non si attua, sotto l’Onu, una governance mondiale dell’economia, con equilibrio di sviluppo per i popoli della terra, le migrazioni soltanto represse senza il soccorso e la giustizia restano il campo di una "tortura della speranza", dove il divario fra il sogno "umano" irresistibile e la realtà disumana inaccettabile è un’agonia che si prolunga, un naufragio che inghiotte la vita degli uomini più che i mari della morte.
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