mercoledì 16 aprile 2014
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«È vero quello che dice la religione, che risusciteremo dai morti e, tornati in vita, ci vedremo di nuovo tutti?», viene chiesto ad Aljòscia, il più giovane dei fratelli Karamàzov, nel grande romanzo di Dostoevskij. «Risusciteremo senz’altro, e ci vedremo e ci racconteremo l’un l’altro allegramente e gioiosamente tutto ciò che è stato», risponde Aljòscia. Le sue parole dicono ancora, dicono sempre la grande speranza dell’umanità. Non c’è, sul piano religioso, speranza più grande. Noi crediamo nella sopravvivenza della nostra anima e nella futura risurrezione della nostra carne. È bene ripeterlo: non c’è e non ci può essere speranza più grande. È figlia, la risurrezione, della nostra fede portata all’estremo. Perché sì, credere in Dio può essere considerato anche naturale così come logica conseguenza del mio credere in Dio può essere ritenuta la mia fede in Gesù una volta che sono entrato in empatia con i Vangeli e sono riuscito a fare miei gli insegnamenti della religione cristiana. Ma credere nella mia risurrezione è ben altro. Devo andare al di là di tutti i confini delle scienze, sia di quella che m’illustra sperimentalmente questo mondo, sia di quella che mi parla di altri mondi, in nessuno di essi mai prospettando alcuna possibile sede di una nostra prossima vita. Insomma: ne devo abbattere di barriere razionali, logiche, scientifiche, per credere nella mia risurrezione.  E tuttavia per me esiste, rigoglioso ma trascurato, il giardino delle risurrezioni terrene. Lo posso visitare in ogni momento e se decido, per esempio, di farmi accompagnare da una psicoanalista di valore del secolo scorso come Françoise Dolto («I Vangeli alla luce della psicoanalisi»), scopro che tanti sono i “risvegli” richiesti dalle nostre molte morti: quella del feto quando nasce il bambino, quella del bambino quando si accorge che i suoi genitori non sono onnipotenti, quella dell’adolescente quando diventa consapevole che sua madre è sua madre, non la donna della sua esistenza, e suo padre è suo padre, non il dio in terra che credeva.  La nostra vita è attraversata dalle nostre morti. Moriamo in diversi modi e moriamo tante volte. Lutti, separazioni, rotture, distacchi dolorosi sono delle morti di fronte alle quali siamo chiamati continuamente a risorgere. E, a guardar fuori di noi, vediamo come similmente siano chiamate a risorgere le Nazioni divorate dalle guerre. È morta l’intera Europa, nella prima metà del secolo scorso, muoiono oggi l’Iraq, la Siria e tanta parte delle nazioni africane, tutte, come quell’Europa, chiamate a rivivere.  Quanto a noi individui, cominciando dal quotidiano risveglio del mattino dopo essere stati cancellati dal sonno della notte, viviamo di risurrezioni. Per uscire da una malattia, da una sconfitta, da un’umiliazione, da una pena, cioè per tornare vivi, sempre veniamo chiamati a risorgere. Siamo esseri 'pasquali' che vivono di passaggi, da un’età all’altra, da una malattia alla guarigione, dal buio dello sconforto alla luce della speranza. La risurrezione di Cristo, certo, c’illumina il cammino e ci fa fortemente sperare che, «come Cristo è veramente risorto dai morti e vive per sempre, così pure i giusti, dopo la loro morte, vivranno per sempre con Cristo risorto, e che egli li risusciterà nell’ultimo giorno»(CCC, 989). Grande araldo della risurrezione del Signore, chiarissimo è Paolo: «Se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi» (Rm 8,11).  La grande promessa è stata fatta e ripetuta. Posso crederci come non crederci, se non ci credo vivo senza speranza, se ci credo mi ritrovo fin d’ora ad aspettare il momento in cui, come dice Aljoscia, «risusciteremo… e ci vedremo e ci racconteremo l’un l’altro allegramente e gioiosamente tutto ciò che è stato».
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