giovedì 5 maggio 2016
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Perché il "presidente del mondo" deve venire eletto soltanto dai cittadini americani, secondo la loro prospettiva limitata? Il provocatorio interrogativo, più volte riproposto, acquista nuova plausibilità con la nomination repubblicana di fatto acquisita l’altra notte da Donald Trump, grazie al voto in Indiana e al ritiro di Ted Cruz, l’ultimo credibile avversario alla convention di metà luglio a Cleveland. Il tycoon che in pochi prendevano sul serio come concorrente nella corsa alla Casa Bianca quando, nel giugno dello scorso anno annunciò la candidatura, oggi è pronto a sfidare Hillary Clinton, e non necessariamente come vittima sacrificale in una partita a senso unico. Sebbene una parte dello stesso Partito repubblicano rimanga perplessa se non ostile di fronte all’ascesa di Trump, risulta ormai difficile immaginare uno scenario diverso dalla sfida finale a due, segnata dal "pericolo", almeno come percepito fuori dai confini Usa, di una vittoria del campione del populismo e della xenofobia. L’uomo che ha fatto un mantra dello slogan sul muro da costruire a spese del Messico lungo il confine meridionale americano e che ha proposto deportazioni e divieti di ingresso ai musulmani e non ha esitato a polemizzare con il Papa, a molti sembra più una iattura che un salutare cambio di politica. Ma non così appare a tanti cittadini statunitensi, quelli che dovranno scegliere se conferirgli i pieni poteri anche di capo delle Forze Armate. Certo, si argomenta, ottenuta la nomination, Trump dovrà abbassare i toni per conquistare l’elettorato di centro e, in ogni caso, quando arrivasse alla presidenza, sarebbe vincolato da regole e procedure consolidate, nonché circondato da un gruppo di consiglieri e collaboratori preparati e affidabili. Inoltre, l’equilibrio dei poteri della democrazia americana ne imbriglierebbe le tentazioni più estreme. Tutto vero, ma non è certo su questo che scommettono i suoi sostenitori. Non pensano che il miliardario spaccone incarni l’alternanza necessaria dopo gli otto anni di Barack Obama e che gli eccessi utili in campagna elettorale lasceranno il posto a un’energica ma saggia leadership. E, probabilmente, Trump sa quello che pensano i suoi sostenitori. Quindi, dato che a votarlo sono soprattutto i lavoratori e pensionati bianchi che davanti alla tv ne apprezzano i comizi urlati, non stravolgerà la linea che finora gli ha dato il successo. La sua strategia, come hanno sottolineato alcuni analisti, si può riassumere nel "Lui con me", laddove quella del candidato democratico è il più tradizionale "Io con lei". "Lui con me" significa che l’esponente repubblicano non si preoccupa di costruire un’immagine pubblica nella quale la gente possa identificarsi o a cui possa aderire nella misura in cui risulti credibile ed efficace. Piuttosto Trump, ed è questa forse l’essenza profonda dei populismi, tenta di mimare e riproporre un sentire diffuso, di assecondare le emozioni ed anche i pregiudizi e le paure di un ceto medio in declino e di una classe lavoratrice che perde reddito e centralità sociale. Gli immigrati e i musulmani tutti "terroristi" diventano allora un facile bersaglio su cui convogliare il disagio. Non c’è solo questo, tuttavia. Nell’affermazione di Trump, conta la ripresa di un orgoglio nazionale che può tradursi in azioni militari unilaterali come nell’isolazionismo teso a risparmiare risorse. Pesa l’oggettivo discredito di una classe politica professionale ritenuta sempre meno affidabile e rappresentativa, sfidata con il linguaggio dell’uomo della strada. Hanno un ruolo i nuovi strumenti di comunicazione e di propaganda, rapidi e superficiali, come i messaggi che vi passano, infiammano per un momento gli animi e danno forza a chi li sa cinicamente sfruttare. E, non ultimo, attrae il fascino di un imprenditore abile (e spregiudicato), amante del glamour, più spesso in copertina sulle riviste di gossip che in prima pagina sul "Wall Street Journal". A oggi Hillary Clinton conserva un discreto margine di vantaggio e, nella polarizzazione della scena pubblica che si accrescerà ulteriormente fino all’autunno, potrebbe coagulare intorno a sé tutti coloro che, pur senza apprezzarla, ritengono la prosecuzione di una "dinastia" il male minore rispetto a un ricco e improvvisato capopopolo. Questo non significa, come già detto, che la gara sia già segnata. Anche gli spettatori interessati, ovvero gli altri cittadini del mondo, proveranno a spingere affinché i votanti effettivi non diano la vittoria al candidato che sembra destinato a esacerbare piuttosto che a risolvere due tra i maggiori problemi globali: i fenomeni migratori e i rapporti con i Paesi a maggioranza islamica e con le minoranze musulmane in Occidente. Trump non sembra intenzionato nemmeno a spendersi significativamente sui temi ambientali e la sua politica estera pare lontana dal multilateralismo virtuoso e di sostegno agli organismi sovrannazionali di cui vi sarebbe bisogno su tanti scacchieri caldi di crisi. Che, però, quella dei populismi non sia una deriva ineluttabile lo dimostrano per esempio i sondaggi che danno prossimo sindaco di Londra, nel voto di oggi, il laburista musulmano di origini pachistane Sadiq Khan opposto, per ironia della sorte, a un altro miliardario, il conservatore Zac Goldsmith. Di qui all’8 novembre molti nuovi fattori potranno complicare il quadro o sovvertire le tendenze in atto, in ogni caso Trump non costituirebbe l’ideale "presidente del mondo".
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