lunedì 25 maggio 2015
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Caro direttore,
quello che sta accadendo lontano dagli sguardi assonnati e pavidi dei popoli della vecchia Europa (il “quieto viver borghese” che un giorno ci verrà rimproverato), ma vicinissimo alle sue radici storiche – la distruzione che minaccia il patrimonio archeologico di Palmira e di altre località siriane cadute in mano ai combattenti del califfato dopo i misfatti compiuti in Iraq – svela la vera debolezza dell’Is, quella culturale, e non la sua forza, che è quella del fanatismo e delle braccia armate. Chi vuole cancellare il senso della storia, di coloro che ci hanno preceduto nel bene e nel male e di ciò che ci hanno consegnato di ricchezza e di miseria, non ha futuro e ha già perso il presente. Senza realismo, ragionevolezza e moralità – senza uno scopo che corrisponda al cuore di ciascuno di noi, di ogni donna e uomo, che non è fatto per la violenza e la morte, ma per la pace e la vita – anche le braccia si alzano e lasciano cadere le armi. È solo questione di tempo: gli errori e gli orrori del secolo scorso lo testimoniano. Il nostro compito è quello di stringere questo tempo, di favorire il ritorno dell’amicizia civile fra le persone e i popoli per contenere il dramma di sangue e di sofferenza che una guerra senza quartieri e fronti, polverizzata, sta provocando. Quale strategia l’Occidente può giocare in questa direzione, sono in molti a chiederselo. Verso chi, come i capi e i miliziani dell’Is, mostra di non avere il senso del proprio limite perché ha perduto quello del tempo e della storia, la risposta armata genera ulteriore violenza, e la macchina bellica scatena odio, alimenta terrorismo e coltiva ambizioni di rivincita, come più volte ricordato anche da Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e papa Francesco. Quella in corso non è una guerra tra eserciti tradizionali i cui comandanti e soldati obbediscono alla ragione politica e militare che porta a risparmiare vite umane, alla resa definitiva del più debole, al cessate il fuoco permanente e al tavolo delle trattative. Non sono così le guerre nel nostro secolo. L’alternativa è offerta dal tallone d’Achille dell’integralismo fanatico e violento del califfato: la loro debolezza culturale. Aiutare i fedeli islamici, sunniti e sciiti, a riscoprire il senso religioso autentico che è in ciascuno di loro e in ciascuno di noi, generatore della nostra cultura e della nostra storia. Non è rinnegando le radici – per quanto ci riguarda le radici ebraico-cristiane dell’Occidente e del Vicino Oriente – ma recuperandole e rafforzandole che potremo sconfiggere i frutti violenti della debolezza culturale, terreno di facile conquista per i predicatori di odio e di violenza. Educare il senso religioso che è all’origine di ogni fede la purifica e la rafforza, e rende capaci di testimoniarne la bellezza e la verità di una vita rispettando e valorizzando ogni accento di esse che traspare attraverso la libertà di ciascuno, senza forzature né violenze. In fondo, è questa l’autentica “laicità”.
Roberto Colombo
Università Cattolica del Sacro Cuore
Certo, caro don Roberto, è solo «questione di tempo». Sono persuaso anch’io che la marea del fanatismo islamico jihadista rifluirà, che alla fine le armi cadranno e la naturale, umanissima voglia di vita e di pace delle persone più diverse prevarrà sulla predicazione dell’odio e sulla pratica della violenza e della sopraffazione. Ma bisogna volerlo. E il problema è quanti e quali danni i miliziani del nuovo califfo avranno nel frattempo fatto, quante distruzioni e quanti sradicamenti avranno provocato. Il problema è quanto sospetto, quanta ostilità, quanta sofferenza e quanta presunzione avranno contribuito ad accumulare ulteriormente nelle menti e nei cuori degli uomini e delle donne d’oriente e d’occidente, del nord e del sud del Mediterraneo e dell’intero mondo. Il problema è quanto grande – e vuoto di bellezza, di cultura e di diversità – sarà diventato il deserto che oseremo chiamare pace. Il problema è capire se il mondo, inteso come comunità delle Nazioni, come unione dei popoli, è capace o no, oggi e non tra anni, di dire parole e compiere gesti capaci di spogliare i “signori della guerra” dell’Is (e di Boko Haram e di al-Shaabab…), assieme ai servi e ai complici che li attorniano, delle loro maschere, delle loro propagande, dei loro alibi, dei loro commerci e delle loro armi. Che in più di un caso sono anche i nostri. Il problema è sapere se c’è la volontà di far finire – e far finire presto – stragi di esseri umani, schiavizzazioni soprattutto delle donne, devastazioni di luoghi sacri, monumenti e siti archeologici, persecuzioni ed espulsioni dalle loro case di cristiani e di yazidi, di non credenti e di fedeli di altre religioni. Il problema è manifestare questa forza e questa volontà senza farsi risucchiare nel vortice della guerra che produce solo altra guerra. Quando papa Francesco ammonì mesi fa che «bombardare» non significa affatto «fermare la guerra», molti non capirono, qualcuno ironizzò, qualcun altro straparlò… In questi giorni, dopo sette mesi di “volenterosi” bombardamenti, mentre lo Stato Islamico si allarga ancora e copre di nero aree cruciali del Vicino Oriente, tutti hanno la prova di quanto saggia e anticipatrice fosse quell’indicazione, quanto sensato quell’appello del Papa. Per fermare il dramma di questa guerra di conquista e di annientamento degli “altri” e di ogni cultura “altra” sono necessarie una grande consapevolezza e una incessante pressione comune che unisca laicamente e religiosamente “i mondi del nostro mondo”: capi di Stato e di Governo, laici e credenti, destra e sinistra, cristiani e islamici delle diverse denominazioni… Una «guerra jihadista» non è meno grave di una «guerra americana» o comunque «occidentale», e anche se si ammanta ostentatamente – dolosamente, mi viene da dire – di propositi “religiosi” non offre tributi di sangue a idoli diversi e non è meno asservita a calcoli affaristici e di potere. Eppure sinora la «guerra jihadista» ha scosso solo a intermittenza l’opinione pubblica internazionale e persino le coscienze più avvertite. A intermittenza e terribilmente di meno di una qualsiasi «guerra americana». Questo strabismo è sempre più intollerabile. E pericoloso. Lo dico con passione e dolore, da cronista stanco di sangue e di devastazioni, da cristiano amante della giustizia e della pace. Lei dice, gentile professore, che l’opera forse più urgente e che riguarda tutti è «educare il senso religioso» di ogni credente, riconnettendolo alle radici e purificandolo dal tradimento della violenza. È un impegno davvero essenziale, come con efficacia e profondità ci ha insegnato appena ieri Benedetto XVI e come ci testimonia oggi Francesco. Risposte serie dal mondo musulmano cominciano – anche se non ancora abbastanza – ad arrivare. E così pure, con la stessa intensità buona e gli stessi amari limiti, crescono attenzioni rispettose nel mondo laico. La strada della pace passa dalla comprensione vera dei fatti e da questa saggezza, che dall’assunzione dell’importanza del dato religioso discende. Sta a noi, a tutti noi insieme, di cominciare a scrivere diritto sulle righe storte del gran libro della storia e di delegittimare, senza esitazioni, i fanatici o melliflui maestri della grammatica dell’orrore.
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