martedì 4 novembre 2014
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Non è solo il posto fisso a non esistere più. È il lavoro meramente dipendente a essere in forte trasformazione verso due poli opposti: da un lato il ritorno a forme di sfruttamento intensivo, al limite dello schiavismo nei campi e in alcuni servizi; dall’altro un coinvolgimento sempre più profondo del lavoratore, chiamato non più solo a prestare un’opera, ma a fornire un apporto anzitutto creativo e di responsabilità personale, a essere pienamente partecipe di un’intrapresa. È un’evoluzione che, sul fronte dei lavoratori, trova sempre maggiori disponibilità, fino all’assunzione di una parte del rischio imprenditoriale. Ma alla quale spesso non corrispondono altrettanto coraggiose aperture da parte delle imprese. E soprattutto manca un’adeguata strumentazione legislativa che sia di supporto e di promozione.Due segnali provenienti da mondi differenti, ieri, danno il polso del fenomeno. Il primo viene da un grande istituto di credito come Intesa San Paolo, dove l’80% dei dipendenti ha aderito a un piano di investimento per complessivi 150 milioni di euro tra assegnazione gratuita di azioni ordinarie e sottoscrizione di nuove emissioni a prezzo scontato. Le condizioni particolarmente favorevoli giustificano un così ampio consenso, ma è interessante notare come questi dipendenti che diventano piccoli azionisti della banca siano gli stessi ai quali è stato disdettato in anticipo il contratto nazionale, assai lontano dall’essere rinnovato.Il secondo segnale, ancora più significativo, viene da una ricerca sui workers buyout (gli acquisti di aziende da parte dei dipendenti) presentata da Confcooperative. Solo in Emilia Romagna negli ultimi due anni si sono registrate 24 operazioni di queste genere. Dipendenti che, a fronte di cassa integrazione e chiusura dell’impresa, si sono costituiti in cooperativa, hanno dato fondo ai risparmi investendoli sul proprio lavoro e si sono assunti la responsabilità di far vivere e guidare le imprese. Piccole realtà, certo, ma che, sommate, significano occupazione e futuro per 700 persone solo in quella regione. Come non ricordare, poi, il caso dei dipendenti della Vitrani di Muggia (Trieste), che la scorsa settimana non hanno esitato a mettere a disposizione il loro Tfr per ovviare alle difficoltà dell’impresa a ottenere crediti bancari. In tempi di recessione e chiusure d’aziende, un dipendente che "scommette" pure la liquidazione sulla "sua" impresa dimostra molto più coraggio di qualsiasi capitalista.I vantaggi di una maggiore partecipazione dei lavoratori al capitale, agli utili e alla gestione delle aziende è facilmente intuibile in termini di pace sociale, produttività, maggiore coinvolgimento negli obiettivi economici, miglioramento delle stesse condizioni di lavoro. Il modello tedesco di mitbestimmung (cogestione) lo testimonia. Ma si tratta solo di una delle tante modalità in cui la partecipazione può svilupparsi con gradazioni diverse.In Italia siamo indietro. Più ancora dei ritardi nella parte di sindacato più legata al conflitto, ha pesato la lentezza della classe imprenditoriale ad aprirsi al nuovo. Assieme all’inconcludenza della politica, sinora incapace di mettere a punto una legge di sostegno e promozione della partecipazione. Tra deleghe scadute e progetti rimasti in commissione se ne discute invano da almeno un lustro. Ancora oggi in Senato giacciono alcune proposte che non si è avuta la lungimiranza di inserire nel Jobs act come contrappeso di altre riforme. L’obiettivo minimo di una legge in materia dovrebbe essere quello di incoraggiare le parti a stringere accordi, incentivandoli fortemente sul piano fiscale e normativo, dando così finalmente corpo all’articolo 46 della Costituzione.Perché, è vero, il posto fisso non c’è più. E certe antiche (e illusorie) certezze nemmeno. Ma per costruire davvero il nuovo, per essere rivoluzionari senza dare argomenti a chi vuol spaccare il Paese (sul lavoro e su altro), occorre anche fare in modo che «cento fiori (di fattiva partecipazione) fioriscano».
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