mercoledì 18 maggio 2016
​Leader che perpetuano se stessi e affamano i loro paesi. Analisi di Giulio Albanese.
 L'Africa ostaggio dei «dinosauri» del potere
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La cerimonia d’investitura, giovedì scorso, di Yoweni Museveni nel suo quinto mandato da presidente dell’Uganda ha offerto un’immagine chiarissima di come lo scenario politico africano sia ancora fortemente condizionato dai 'Cesari africani', che mantengono il potere a vita, grazie al controllo di ingenti risorse finanziarie che si traducono quasi esclusivamente in spesa per il controllo delle Forze armate. Musuveni, che nelle elezioni dello scorso 18 febbraio ha di fatto silenziato l’opposizione proprio grazie al controllo militare, non è certamente l’unico esempio di queste pseudodemocrazie. Alla cerimonia a Kampala erano presenti altri dinosauri della politica panafricana del calibro di Robert Mugabe (Zimbabwe) o Omar Hassan el-Bashir (Sudan). Il delirio di onnipotenza espresso da tali leader è una costante nel panorama geopolitico dell’Africa subsahariana. Esso perpetua e incrementa i vizi storici delle élite postcoloniali: l’oligopolio economico, il familismo politico su base etnica e la disomogeneità nella redistribuzione delle risorse nazionali su base clientelare. In questo modo, le differenze tra i centri di potere e le masse impoverite sono progressivamente aumentate, suscitando radicali rivendicazioni sociali, etniche, ma anche a sfondo religioso. Sebbene la prima generazione dei 'presidenti-padroni', quella che imperversava negli anni Sessanta e Settanta, sia uscita progressivamente di scena – basti pensare al filooccidentale zairese Mobutu Sese Seko o al 'negus rosso' etiope Mènghistu Hailè Mariàm , per non parlare dell’ex imperatore centrafricano Jean-Bedel Bokassa –, nuove leadership legate alla cleptocrazia hanno preso il sopravvento. L’elenco è lungo: dal camerunese Paul Biya al ciadiano Idriss Déby, dal gabonese Ali Bongo al congolese Denis Sassou Nguesso, peraltro affiliati a logge massoniche, alcune autoctone, altre di obbedienza straniera. L’avvento di questa seconda generazione di presidenti, o 'monarchi' che dir si voglia, pronti a lasciare la propria carica a figli o parenti stretti, è coinciso con la fine della Guerra fredda, determinando una vera parcellizzazione del continente in aree d’influenza, a macchia di leopardo. Ecco che allora, oltre alle ex potenze coloniali europee e agli Stati Uniti, sono scesi in campo Paesi come la Cina, l’India, il Giappone, la Corea del Sud, la Malaysia, il Canada... Il flusso di denaro proveniente dall’estero ha certamente rappresentato la colonna portante di una crescita economica significativa di non pochi Paesi africani, una crescita però fragile, poiché ancora troppo legata all’esportazione (in particolare delle materie prime, monocolture agricole e fonti energetiche) e non al consumo interno. Inoltre, la mancanza di politiche all’insegna della legalità e del welfare ha emarginato i ceti meno abbienti, demograficamente maggioritari.CLICCA SUL GRAFICO PER INGRANDIRE

I processi elettorali, dal punto di vista dell’etica politica, continuano spesso a privilegiare gruppi di potere con agganci internazionali, e l’esito delle consultazioni rispecchia dinamiche regionali o etniche invece di essere espressione di un’alternanza programmatica. Col risultato che i cambiamenti al vertice – se avvengono – si registrano a seguito di guerre civili e colpi di Stato (Repubblica Centrafricana, Costa d’Avorio, Mali, Madagascar, Repubblica Democratica del Congo...). Le leadership longeve, sia con relativi progressi economici (come nel caso di Angola, Uganda, Ruanda...) sia più spesso con stagnazione sociale e l’implosione economica (Eritrea, Togo, Ciad, Camerun, Zimbabwe...) – restano tali, come detto, per l’appoggio incondizionato dei militari. E proprio l’uso della forza (più o meno camuffato dalla propaganda) rappresenta l’elemento discriminante per affrontare i problemi nazionali che via via si presentano. Anche dove sono stati avviati processi di pacificazione, dopo conflitti spesso ultraventennali, come nel caso del Sud Sudan, gli antagonismi personali sono tali per cui, prima o poi, si torna a combattere.Evidentemente, la persistenza del settarismo oligarchico, come anche la crescita esponenziale degli interessi economici internazionali, hanno rafforzato i 'Cesari' e le loro dinastie, spingendo i gruppi e le etnie subalterne, soprattutto quelle più povere, tra le braccia di organizzazioni e dottrine che canalizzano la spinta antigovernativa. In molti casi, il marxismo è stato sostituito dal radicalismo islamico di matrice salafita e il sostegno sovietico è stato rimpiazzato dall’ingresso nel network di al-Qaeda o del Daesh. Si tratta di vere operazioni di franchising, a livello regionale, non solo per garantire traffici illeciti, ma anche per sopperire alle lacune sociali, educative ed amministrative dei governi centrali. In sintesi, anche quei Paesi che sembrano avviati verso processi di graduale stabilizzazione, come la ricca Nigeria, sono in realtà esposti a rischi di improvvisa implosione, poiché il sistema istituzionale è ostaggio del potere centrale. In questo Paese, afflitto dal terrorismo spietato di Boko Haram, si sono succeduti negli ultimi decenni governi militari e civili, i quali hanno gestito le risorse nazionali secondo logiche clientelari. Sebbene da circa 15 anni il regime parlamentare, come anche l’alternanza al governo, si siano consolidati, la struttura centralistica del potere è tale per cui i presidenti di turno, nonostante il maquillage democratico, fanno carte false pur di accaparrare denaro. L’ex presidente nigeriano Goodluck Jonathan, secondo la rivista People with Money, ha raggranellato un 'fatturato' annuo di 58 milioni di dollari, senza contare proprietà immobiliari e investimenti anche al di fuori del Paese.Rimane il fatto che nell’Africa subsahariana la tentazione, tranne alcune eccezioni, è sempre quella di mantenere il potere a ogni costo. A parte il regime di Museveni e quelli già citati, vi sono personaggi come Teodoro Obiang Nguema, presidente della Guinea Equatoriale, al vertice dal 1979, o Joseph Kabila, capo di Stato della Repubblica Democratica del Congo già da 15 anni, che si ritengono 'eterni'. Questi 'dinosauri' della politica africana rappresentano un problema non solo quando sono in sella, ma anche qualora escano di scena volontariamente o dopo una destituzione. Il rischio è che si aprano voragini politico-istituzionali con l’implosione del sistema statuale, come avvenuto nel caso di Muammar Gheddafi, rovesciato con l’intervento di Londra e Parigi. È vero che la società civile africana, se fosse debitamente valorizzata, potrebbe rappresentare il vivaio di nuove classi dirigenti in grado di servire con maggiore dedizione la res publica. Ma è altrettanto vero il problema trasversale africano dello 'Stato-Nazione', così come venne descritto dallo storico inglese Basil Davidson, secondo il quale una forma istituzionale di imitazione occidentale si traduce, nel contesto africano, in governi personali e autocratici, fondati sul nepotismo e la corruzione, esercitati a favore di alcune componenti etniche contro le altre. A questo riguardo, Davidson stigmatizzava le pesanti responsabilità delle ex potenze coloniali nella cooptazione di élite autoctone che si prestano, ancora oggi, al mantenimento di rapporti economici ineguali seppure informali. Il tutto attraverso milizie private e compagnie multinazionali, finalizzate allo sfruttamento delle risorse naturali e del tutto indipendenti da qualsiasi forma di consenso o legittimazione popolare. Seguire, allora, il filo rosso dei mali africani porta anche alle responsabilità di quei governi europei (e non solo) che oggi fanno orecchie da mercante rispetto all’emergenza dei flussi migratori.
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