lunedì 21 aprile 2014
​L'aspra salita di Abramo e di Isacco. Le nostre prove.
di Luigino Bruni
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Ogni figlio nasconde un mistero di gratuità. Anche Isacco, sebbene in un modo unico e straordinario: «Sara tua moglie ti partorirà un figlio» (17,19). Abramo «rise, dicendo in cuor suo …“Sara all’età di novant’anni potrà partorire?» (17,17). Non poteva credere a una promessa che violasse le leggi della natura (che quella stessa Voce aveva dato al mondo e alla vita). Anche Sara rise alle querce di Mamrè: «Proprio adesso che sono vecchia dovrei provare piacere?» (18,12). E riderà anche Elohim quando dirà il nome del figlio: «Isacco» (17,19), Jishaq, cioè «(Dio) riderà». Abramo e Sara sapevano che Isacco era tutto e solo dono di quella prima Voce. Tutto il resto lo scoprono mentre lo vivono. Siamo noi lettori e ri-lettori di questi testi che sappiamo della “prova” del Monte Moria, dell’angelo e dell’ariete. Non loro: Abramo, Isacco, i servitori, Sara, non sapevano che cosa sarebbe capitato loro nel passo successivo a quello che stavano facendo. Se non prendiamo sul serio l’umanità reale di quelle lontane narrazioni e dei loro protagonisti, finiamo inevitabilmente per considerarle belle favole edificanti o racconti etici, e così li svuotiamo di tutta la loro forza antropologica, sociale, spirituale. Prenderli sul serio significa allora seguire Abramo, ripetere con lui le sue esperienze, “ignoranti” come lui, offrire come lui un figlio e come lui ritrovarlo. Solo una lettura “incarnata” della Bibbia può sconfiggere le consolazioni ingannatrici e le ideologie. Così ci incamminiamo con fiducia dietro una voce verso una terra promessa senza sapere se e quando la raggiungeremo; abbiamo finalmente un figlio, e poi scopriamo di doverlo abbandonare nel deserto; riceviamo un altro figlio in dono e poi dobbiamo perderlo di nuovo; andiamo con Caino nei campi e lì siamo uccisi da un fratello; portiamo una croce verso il Golgota, siamo crocifissi, e restiamo senza fiato per la risurrezione. "Abramo, Abramo”. Rispose: “Eccomi”. Riprese: “Prendi il tuo figlio, il tuo diletto che ami, Isacco, e vai nel territorio di Moria, e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò”» (22,1-2). La Genesi non fa dire nessuna parola ad Abramo. Dice solo che partì «di buon mattino» (22,3), come era partito di «buon mattino» (21,14) per allontanare Ismaele e Agar nel deserto. E come in quel lontano giorno della sua prima chiamata a Ur dei Caldei, Abramo risponde ancora partendo, camminando dietro la voce. Abramo si mise in cammino verso il monte Moria con la stessa fede-fiducia con cui era partito verso la terra promessa. È fedele alla voce e a se stesso chi risponde mettendosi in cammino nelle albe e nelle notti della vita. La fede-fedeltà-fiducia sta nel credere che la voce che ti aveva promesso la felicità può essere la stessa voce che ti richiede il figlio che ti aveva donato. Abramo, vecchio, riparte ancora, riconoscendo in quelle parole la stessa prima voce. E se vogliamo oggi farci ridonare un figlio, se vogliamo continuare una storia di salvezza, dobbiamo rivivere quel racconto camminando con e come Abramo. Almeno una volta nella vita. Rifà il viaggio salvifico di Abramo quell’imprenditore, Giulio, che dopo aver creduto nell’azienda di famiglia ereditata dai genitori, quando finalmente l’impresa iniziava a portare frutto e a intravvedersi giorni sereni, arriva una richiesta di una tangente da pagare per continuare il rapporto con il cliente più importante. Giulio non accetta, e mentre torna da quel colloquio indecente verso casa sa soltanto di avere ascoltato la voce dentro che gli diceva: «Meglio chiudere l’impresa che diventare corrotto e ingiusto». Non sa niente di più: è già molto, è sufficiente per continuare bene la salita del vivere, ma non sa nulla più di questo. Non sa di angeli che arriveranno, né che sta vivendo “soltanto” una prova. Ripercorre la salita muta di Abramo quella barista, Giovanna, che aveva rilevato un locale in centro città, lo aveva liberato dalle slot per amore dei poveri della sua città e dei suoi bambini, perdendo così duemila euro al mese; e ora che con grande fatica il bar sta iniziando a funzionare, ecco che si presenta qualcuno a chiederle il pizzo. Giovanna dice di no, perché una voce le dice: «Meglio il negozio incendiato che perdere l’anima». Ascolta e conosce solo queste poche parole interiori, vuol vedere soltanto questa contabilità morale. È amica di Abramo anche Anna, una giovane mamma che, riavuta in dono la salute al termine di una lunga ed estenuante cura, alla visita di controllo scopre una recrudescenza della malattia: non si incattivisce con la vita, l’accoglie docile e tenace, e torna a casa senza sapere che cosa accadrà su quel monte che l’attende. In queste autentiche avventure dell’anima e dello spirito, l’angelo arriva, se arriva, solo quando si è fatto tutto senza sapere che sarebbe arrivato. Questi angeli non annunciano il loro arrivo. La storia di Abramo ci dice che le cose impossibili e incredibili possono – non debbono – accadere se si sa arrivare fino all’ultima parola del discorso della nostra vita. Dopo, solo dopo, si scopre, ogni tanto, almeno una volta, che quella che sembrava l’ultima parola era soltanto la penultima. Ma prima di averla pronunciata non potevamo conoscerla, perché era la parola donata. Il valore etico e spirituale di chi cammina con e come Abramo sta nell’arrivare sul monte col figlio la legna e il fuoco, preparare l’altare, e poi prepararsi a “morire” col figlio su quello stesso altare. Ma Abramo è compagno e alleato anche di tutti coloro ai quali l’angelo non è arrivato: il bambino non si è salvato, l’impresa è fallita, il bar è stato bruciato, la malattia ha vinto. Abramo ci ama con la sua fede forte e docile nel tratto di strada che va dalla tenda di Sara fino all’attimo prima di sentire la voce dell’angelo che ferma il pugnale. La voce dell’angelo non aggiunge nulla al valore della fede di Abramo, anche se ci svela molto della logica e della natura di Elohim. Se Abramo avesse saputo prima dell’angelo, la sua esperienza sarebbe stata una “fiction”, il figlio ridonato non sarebbe stato premio alla sua fede, ma un povero incentivo per partire più spedito di buon mattino. Chi nella vita ha avuto il dono di “morire” e di “risorgere” almeno una volta, ha imparato che la resurrezione arriva solo se si è saputo morire. Mentre viviamo i nostri inverni non sappiamo se e quando arriveranno le primavere. Siamo come quei popoli antichi che dopo ogni tramonto non sapevano se il sole sarebbe risorto al termine della notte. Anche dopo mille resurrezioni, nostre e degli altri, quando si intravvede di nuovo un monte e una salita ci si rimette in cammino “ignoranti” come la prima volta, sapendo soltanto di dover camminare. Neanche Dio, almeno il Dio biblico, poteva sapere se Abramo sarebbe arrivato fino al termine della salita e avrebbe preparato l’altare: lo ha scoperto, stupendosi e forse commuovendosi, soltanto mentre Abramo impugnava il coltello. È questo stupore che rende ogni attimo della vita irripetibile e unico, e che dà un immenso valore al tempo, alla storia, alla nostre libertà e responsabilità. on è stata la logica di Abramo quella sulla quale abbiamo costruito l’Europa, l’Occidente, la modernità, il capitalismo. Il dominio della tecnica, l’utilitarismo economico, i calcoli costi-benefici, sono figli di Ulisse, dei greci e poi dei moderni. Non di Abramo. Se però il mondo non muore, se le buone imprese e le famiglie continuano a fiorire, è perché anche Abramo è vivo in tanti, e forse una sua eco resiste in tutti. Ci sentiremmo più amati dalla vita e meno soli sui monti Moria dell’esistenza se fossimo più coscienti di essere figli di Abramo ogni volta che, ad ogni costo, restiamo fedeli fino alla fine a una voce, a una promessa, a un patto, alla nostra coscienza, alla parte migliore di noi. Raccontiamoci allora gli uni gli altri la storia del monte Moria, di Elohim, di Isacco, di Sara, dell’altare, dell’angelo, dell’ariete. Ma soprattutto non smettiamo mai di raccontarci di Abramo.
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