giovedì 8 ottobre 2015
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Non serve farsi illusioni: alla fine i Tornado italiani smonteranno le telecamere che portano sotto le ali per i voli di ricognizione e monteranno le bombe “intelligenti”. Il dibattito politico, per quanto encomiabile, è un conto, la realtà dei fatti tutt’altro.  Ritirando fuori un sistema collaudatissimo, si è fatto filtrare nei giorni scorsi sui media la notizia della possibile partecipazione italiana ai raid contro il sedicente Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi in Iraq. Una sorta di “mitridatizzazione del fatto” per «vedere di nascosto l’effetto che fa», parafrasando il compianto Enzo Jannacci e la sua celebre “Vengo anch’io. No, tu no".  In Parlamento ci sarà una prevedibile spaccatura a sinistra, consenso a destra e alla fine il via libera alla missione («solo in territorio iracheno» e su richiesta di quel governo) passerà. Con costi aggiuntivi a quanto già si spende per i pattugliamenti, ma con un’efficacia pari a zero. Perché «bombardare non serve» per fermare la guerra e sostenere il contrario è una menzogna, e ancor di più nel caso della guerra che sconvolge e insanguina da troppi anni il “Siraq”.  Lo stanno a dimostrare i fatti: in oltre un anno i caccia della coalizione a guida statunitense – l’80% dei raid, con una media di venti quotidiani, li compie ancora l’aviazione di Washington – hanno sortito effetti «irrisori», a detta degli stessi strateghi del Pentagono. L’Is non schiera un esercito tradizionale, ma decine di migliaia di jihadisti ben addestrati e con armamento “leggero”. Quello pesante resta ben nascosto e fuori dalla portata delle passate dei jet. Non ci sono divisioni di carri armati o convogli della logistica. C’è il controllo del territorio, il reperimento delle risorse in loco, una radicata rete di alleanze e complicità che poi si allarga a diverse parti del mondo islamico. I miliziani sono aumentati in questi mesi, invece di diminuire sotto le bombe soprattutto americane. Il territorio controllato dallo Stato islamico cresce invece di diminuire. La famosa e propagandata offensiva di primavera per liberare Mosul (da oltre un anno e tre mesi in mano al sedicente Califfato), rischia di trasformarsi ancora una volta nell’inverno delle intenzioni senza il coinvolgimento diretto (spiegano ancora i militari) di truppe sul terreno. Cosa che nessuno, nella Coalizione, vuole sentire. E che solo la Russia – tornata attivissima, determinata e determinante nel Vicino Oriente – contempla e pratica in sinergia con vecchi e nuovi alleati sul terreno.  L’Italia, per intervenire legittimamente, dovrà dunque attendere la richiesta del governo di Baghdad. Proprio come Mosca ha “atteso” (si fa per dire) la missiva di Bashar al-Assad che chiedeva l’aiuto del Cremlino per «pacificare» la Siria. Adesso, però, una richiesta irachena analoga è attesa a ore anche sulle rive della Moscova. Richiesta che coinvolgerebbe direttamente anche nel conflitto iracheno i caccia e i bombardieri di Putin (e probabilmente non solo quelli). E se, per la Siria, Alleanza atlantica e Russia litigano ormai quotidianamente per i corridoi aerei, con evidenti rischi di “incidenti”, è immaginabile una situazione analoga in Iraq. È questo lo sterile ginepraio che fa da teatro al prevedibile «coinvolgimento» italiano.  Non far nulla sarebbe però peggio, dicono in tanti. Fare qualcosa, per dire di averlo fatto, è però ancora peggio. Un punto di partenza, come in ogni questione anche la più intricata, però c’è sempre. E sembra affiorare anche dalle parole del Papa, dalle ultime pronunciate davanti al mondo nel Palazzo di Vetro dell’Onu senza dimenticare uno dei pressanti appelli fatti in questi anni di conflitto siriano e iracheno all’unisono con tutti gli uomini di pace e, specialmente, coi capi delle antichissime comunità cristiane dissanguate dal martirio e dalla fuga per sradicamento dalle proprie case e terre. Fermare le armi – dice Francesco – e fermate i lucrosi traffici che alimentano il conflitto e si alimentano di esso. La guerra è, e resta, una non-soluzione.
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