Sedute accanto nel furgone di Hamas, le tre ragazze restituite a Israele nella prima immagine sembrano sorelle: pettinate uguali, pallide uguali, come chi non vede il sole da un anno. Ugualmente sbalordite di essere vive, e di tornare a casa. Come se quell’ interminabile buio, nel fragore delle bombe, nell’attesa di un’imminente morte, imprimendosi sulla espressione e i lineamenti originari le avesse riplasmate quasi eguali.
E il manipolo di soldati di Hamas? Sotto la maschera, in divisa, i mitra sottobraccio, anche quelli fra loro identici. (Non doveva l’Idf “eliminarli fino all’ ultimo”, secondo Netanyahu? Hanno diciott anni, forse meno, quei ragazzi col volto nascosto. I figli dei padri e delle madri uccise prendono le armi. L’“ultimo” di Hamas, non esiste. L’arruolamento continua.)
E le macerie, quel pianeta incenerito che è Gaza, quei 42 milioni di tonnellate di cemento cui gli sfollati tornano, chiamandole assurdamente “casa”. Sotto alle travi spezzate bombe inesplose, e quanti morti insepolti. Sotto alla polvere di Gaza cucine, letti, culle, vita - una volta. Ma all’apparenza quella distesa marziana, che atterrisce anche il più distratto degli occidentali, è tutta uguale.
Il male tende all’annichilimento, al nulla. Il male vuole che tutto sia uguale. Odia l’individuo, unico e irripetibile, intessuto in Dio prima ancora che in sua madre.
Già, le madri. Che quelle madri in attesa alla frontiera siano vive, davvero mi meraviglia. Quasi più del fatto che siano vive le figlie. La pena di quelle madri è stata incommensurabile. Che tutto sapendo di quella notte di ottobre, e ogni giorno vedendo le bombe su Gaza in tv (la bambina, la loro bambina dov’è? Perché così le chiamano ancora, fra sé); che tutto conoscendo e vedendo queste donne fossero ieri vive, ad accogliere le figlie in un interminabile abbraccio, mi sbalordisce. Minate dal crepacuore, ma più forti. Sostenute da una speranza invincibile. Dovranno, ora, aiutare quelle figlie a nascere un’altra vuota. Un’altra volta, dal buio a vedere la luce.
Inimmaginabile, due anni fa, lo sfregio, il sisma umano della notte del 7 ottobre. Inimmaginabili i rapimenti, e poi la distruzione di Gaza, e 40mila morti. Il male sviluppa trame inconcepibili, che a loro volta chiamano altro male. Sotto al volto dell’uguale: le espressioni degli ostaggi, le facce di Hamas, le macerie, tutto coperto da una anonimia. L’uomo cancellato.
Tregua, finalmente – armata, e chissà per quanto. Solo, dal nulla di Gaza, ti solleva l’ingresso in massa, quasi l’irruzione, di centinaia di Tir carichi di cibo e medicine dal varco di Rafah. Arrivano i soccorsi a un popolo stremato: tardi, ma finalmente arrivano. Finalmente avranno da mangiare, i figli - quelli ancora vivi. Almeno la carestia, basta.
I Tir rombanti alla frontiera ti svegliano un filo di speranza. Che sia finita? Ne dubiti. Ma per le strade di Gaza, incredibilmente, si festeggia. In Piazza degli Ostaggi, a Tel Aviv, si festeggia. Si sta a guardare, noi lontani, incerti, come in cima a un crinale. In bilico tra la ragione che ti dice: non può essere finita, e, più profonda, una tenace, sorgiva speranza. Quella che per Peguy è la sorella piccola, fra le virtù teologali: eppure quella che trascina gli uomini, e li tiene ostinatamente in vita.

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