martedì 4 novembre 2014
Il processo di pace unica via per il governo di unità nazionale. di Riccardo Redaelli
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Nell’ascoltare i racconti e i giudizi sulla situazione afghana di militari e funzionari, sia Nato sia locali, è difficile convincersi che stiano parlando dello stesso Paese, tale è la differenza e la distanza delle analisi. Per qualcuno il Paese è sull’orlo del tracollo, solo questione di tempo dopo il ritiro di gran parte delle truppe straniere, per qualcun altro i combattimenti di quest’anno dimostrano che i taleban non hanno alcuna possibilità di sconfiggere le forze di sicurezza afghane (Ansf). Allo stesso tempo, i lunghi mesi di contestazione dei risultati seguiti al secondo turno delle elezioni presidenziali di giugno rappresentano per qualcuno l’emblema del fallimento del sistema istituzionale voluto dall’Occidente lo scorso decennio. Per altri, il governo di unità nazionale fra il presidente Ashraf Ghani e il Ceo (una sorta di primo ministro, carica non prevista dalla costituzione) Abdullah Abdullah è la miglior soluzione politica per consolidare lo scenario possibile. C’è chi vede il nuovo presidente come un indefesso riformatore che sconfiggerà la corruzione dilagante e rilancerà l’economia e chi quasi come fosse un invasato iper-cinetico, che passa da un dossier all’altro senza avviare concretamente alcuna riforma, limitandosi agli annunci e gesti ad effetto. Insomma, le percezioni divergono completamente quando si parla dell’Afghanistan e del suo futuro. E dato che, come amano ricordare i militari della missione Nato per l’assistenza all’Afghanistan (Isaf), «le percezioni plasmano la realtà», questa mescolanza di giudizi produce ancora maggior confusione sul terreno. Come noto, il primo turno elettorale del 5 aprile aprile 2014 aveva suscitato grandi speranze: vi era stata una grande partecipazione popolare e i brogli erano apparsi limitati, mentre i taleban non avevano influito se non in misura minima sulle operazioni di voto, che avevano portato alla netta affermazione del candidato più vicino ai tajiki e agli hazara, Abdullah Abdullah, mentre i diversi candidati pashtun si erano sottratti voti a vicenda. Nel secondo turno di giugno, fra Abdullah e il tecnocrate pashtun Ashraf Ghani, le cose si erano andate complicando: la polarizzazione etnica si era fatta più evidente, gli attacchi degli insorti erano aumentati, ma soprattutto vi erano state le accuse di massicci brogli per favorire la vittoria di Ghani. Il tutto ha portato a una lunga paralisi: conteggi e riconteggi, accuse reciproche fra i due contendenti, la velata minaccia di creare governi paralleli e il rischio di una frammentazione del Paese. Alla fine di settembre dopo forti pressioni di Stati Uniti e Nato, l’accordo fra i due: Ghani è stato riconosciuto presidente, mentre per Abdullah si è creata la posizione di Chief Executive Officer, una sorta di primo ministro, di fatto. Inutile chiedersi chi abbia realmente vinto le elezioni: le opinioni divergono fortemente e non solo fra gli afghani. Nei miei incontri con militari e funzionari Isaf, sento sostenere con convizione entrambe le versioni. Ma in fondo, poco importa. Ciò che conta è che i due siano decisi a lavorare assieme per rilanciare il governo del Paese, dopo la fine delle disastrose presidenze Karzai. E tanto Ghani quanto Abdullah, sembrano essere consapevoli che non vi sia alternativa alla coabitazione. Convinzione che vacilla nei loro schieramenti: nel Nord del Paese, in una provincia marcatamente ostile al presidente, nei discorsi che mi vengono fatti emerge la rabbia e lo scontento. È questo quanto preoccupa gli analisti, ossia che le forze radicali in entrambi gli schieramenti possano boicottare il governo di unità nazionale. Anche perché entrambi, per vincere le elezioni, hanno imbarcato il peggio del passato afghano: ex capi mujaheddin dalla corruzione ormai leggendaria, signori della guerra e della droga, capi tribali e locali ambiziosi. Tutti costoro aspirano ora a cariche e prebende, che vanno invece divise fra due schieramenti. Un altro elemento sorprendente dell’Afghanistan di oggi è l’apparente 'scomparsa' dei taleban. Non dai campi di battaglia: lì purtroppo non mancano di far sentire le loro armi e di attaccare con sempre maggior frequenza le truppe nazionali afghane. Ma è dai discorsi dei politici afghani e anche dei nostri militari occidentali che gli insorti sembrano quasi assenti. Eppure per anni sono stati citati in modo quasi ossessivo in ogni colloquio o presentazione. Difficile capire il perché di questa rimozione, che si spiega forse con l’attenzione estrema verso il processo politico interno che ha portato al governo di unità nazionale. O con il fatto che, nonostante i loro sforzi, i taleban non sfondino da nessuna parte, anche ora che le forze Isaf non proteggono più le Ansf. Queste ultime, nonostante le perdite molto alte di uomini, tengono il campo e sembrano estremamente determinate e fiduciose per il futuro. Certo, quanto è chiaro è che senza il sostegno occidentale in termini di logistica, addestramento e sostegno finanziario, le forze armate afghane sono destinate all’implosione. Per questo nel 2015, sulle ceneri di Isaf, nascerà la missione Resolute Support, che Obama vorrebbe limitare a soli due anni, un limite temporale ritenuto assurdamente breve dai nostri militari. «Se lasciamo entro due anni», mi dice un alto comandante Nato, «ci esponiamo al rischio di vanificare quanto fatto finora». Non che gli afghani non sappiano combattere, sottolinea, ma la loro capacità di gestire la complessa logistica e organizzazione di una struttura complessa come un esercito è del tutto insufficiente. Così come impreparate sono le forze di polizia (Anp), nonostante anni di training occidentale. Del resto, dicono i nostri, il governo afghano butta allo sbaraglio la polizia, impiegandola spesso come fosse un corpo militare e non di presidio e controllo del territorio, che è cosa ben diversa.  Ma se anche le Ansf tengono sul campo, è impossibile che riescano a sconfiggere i taleban. «Perché noi, con tutta la nostra tecnologia e preparazione ci siamo forse riusciti?» ironizza un alto generale occidentale. L’unica soluzione per ridurre uno scontro ormai endemico è quello di rilanciare il processo di pace, che l’atteggiamento ondivago e irritante del vecchio presidente Karzai avevano fatto arenare. Il nuovo presidente Ghani sembra orientato a perseguire una doppia strategia: da un lato, aperture e accordi con i singoli comandanti taleban sul campo, per dividere il nemico e indebolirlo militarmente (una strategia che ha funzionato durante i mesi estivi); dall’altro, la ripresa del cosidetto processo di Doha, ove da anni si incontrano delegazioni dei taleban storici vicini al mullah Omar e membri del governo di Kabul. Finora, non hanno portato ad alcun risultato, anche se sembra che i rappresentanti taleban non disegnino le comodità e i piaceri della capitale del Qatar. Vedremo se Ghani riuscirà a ottenere di più. Anche se la chiave di volta per ogni passo avanti del processo di pace passa ancora dal Pakistan, il quale sembra incapace di adattare la propria strategia al nuovo contesto, nonostante i taleban siano un pericolo ormai anche interno a quel Paese. Vedremo cosa Ghani riuscirà a fare. Una frase sentita mille volte in questi giorni, a volte colma di speranze eccessive, a volte condita da sfiducia o sarcasmo. Certo fare meglio di Karzai non sarà difficile, visto i risultati disastrosi di quest’ultimo. Ma fare meglio non sarà abbastanza. Dopo 13 anni di impegno, tanti morti e spese altissime, l’Occidente ha altre crisi con cui confrontarsi e altri leader locali da cui farsi deludere. Se non vuole essere travolto da un mix letale di disincanto e di distrazione, il governo di Ghani e Abdullah dovrà stupirci positivamente. E iniziare a dare quelle risposte in tema di corruzione e mal governo che gli afghani attendono da più di un decennio.
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