sabato 13 luglio 2013
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Adesso, magari, sarà un po’ meno difficile far capire ai ragazzi come mai in Shining Jack Nicholson continui a pestare sulla tastiera gli stessi sei tasti (tante sono le lettere dell’apparentemente insensato redrum) anziché darsi da fare con il copia-incolla. Perché sì, c’è stato un tempo in cui il computer non esisteva, se non come ingombrante “cervellone” a uso di pochi laboratori. Un mondo in cui la macchina per scrivere era l’attrezzo adoperato da eserciti di segretarie, come ci ha appena ricordato un divertente film francese, Tutti pazzi per Rose. Era il feticcio portatile dei giornalisti (ricordate la famosa foto di Indro Montanelli accovacciato?), ma sulla liceità del suo utilizzo da parte degli scrittori il dibattito era aperto. Nel 1982, quando il Nobel andò a Gabriel García Márquez, ci fu chi si chiese, e seriamente, se fosse opportuno premiare un romanziere che passava subito al dattiloscritto, senza l’abituale trafila della stilografica. Come se già non ci fosse stato Jack Kerouac, che aveva adoperato un rotolo da telescrivente per digitare Sulla strada. E come se perfino George Orwell, insoddisfatto della dattilografa di turno, non si fosse sobbarcato il peso di ricopiare a macchina il manoscritto di 1984. Roba da archeologia industriale, almeno fino all’altro giorno, quando è trapelata la notizia che i servizi segreti russi hanno ordinato una considerevole quantità di macchine per scrivere, molto probabilmente con l’intento di impedire che gli appunti più riservati lascino una qualunque scia elettronica. Com’è facile comprendere, la decisione è un effetto collaterale della tempesta Datagate e lascia capire che la presenza della “talpa” Edward Snowden a Mosca non ha soltanto un valore simbolico. Ma lasciamo da parte le valutazioni politiche e anche la giusta (ma ormai lapalissiana) circostanza per cui ogni nostra azione digitale è destinata a essere memorizzata, tracciata e, nel caso, rintracciata. Il ritorno in grande stile delle macchine per scrivere nell’intimidatorio palazzo della Lubianka (si parla di un ordine per un controvalore di circa 12mila euro) ci dice in realtà qualcosa di più vasto, qualcosa che riguarda la fretta con cui, negli ultimi anni, ci siamo sbarazzati di un’apparecchiatura impietosamente bollata come obsoleta. Vuoi mettere la comodità?, ci siamo chiesti mentre rinunciavamo alla carta carbone e ai nastri magnetici, alle calcolatrici meccaniche, all’alfabeto Morse e a qualsiasi altro dispositivo che potesse essere sostituito prima da un software e ora da una app. Abbiamo rinunciato così a una tecnologia a bassa intensità che invece, presto o tardi, potrebbe tornare a rivelarsi utile, secondo una predizione già suggerita dalla fantascienza e da qualche autore ispirato come il il regista Michel Gondry, nei cui film gli oggetti sono sempre in qualche modo sfasati rispetto alle necessità del racconto. Non è questione di nostalgia, tanto meno di snobismo. Continuare ad adoperare più strumenti è semplicemente un modo per impedire che le cose – non importa quanto sofisticate ed efficienti – finiscano per prendere il sopravvento. Saperne di più, in fondo, non è mai saperne di meno. Sarà evidente anche questa affermazione, d’accordo, ma fatto sta che ce ne stiamo dimenticando.
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