domenica 3 agosto 2014
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L'intreccio tra questione generazionale e questione demografica costituisce un’ottima chiave di lettura per comprendere la natura profonda della crisi italiana. Il nostro Paese, infatti, vive una curiosa contraddizione: mentre la speranza di vita è tra le più alte del mondo, per quanto riguarda i tassi di natalità rimaniamo in fondo alle classifiche internazionali. Sul piano occupazionale, con livelli di partecipazione (specie femminili) molto bassi, registriamo tassi di disoccupazione giovanile che, in alcune regioni meridionali, sfiorano il 50%. E anche in tema di povertà, sono i minori il gruppo sociale che presenta l’incidenza più elevata.Detto in altri termini, la società italiana ha un grave problema di crescita. Non solo economica; ma anche demografica e sociale. Di fatto, viviamo in un Paese in cui le opportunità di vita sembrano chiudersi invece che aprirsi. Specie per i giovani.È a partire dagli anni 90 – da quando, cioè, siamo entrati in una fase storica nuova che abbiamo chiamato “globalizzazione” – che l’adattamento del Paese è andato verso il punto di minor resistenza: per evitare di affrontare nodi più spinosi, è stata flessibilizzata la vita delle nuove generazioni, senza toccare la stabilità del mondo degli adulti. In buona sostanza, abbiamo pensato di risolvere i nostri problemi scaricando l’onere sui nostri figli. Col tempo ciò ha creato squilibri crescenti. Cito due esempi.Primo: da una ricerca svolta in regione Lombardia sulle abitazioni private risulta che chi ha oggi ha più di 70 anni dispone, in media, del doppio dei metri quadri di chi ha 40 anni. Con il risultato paradossale che gli spazi abitativi risultano inadeguati sia per gli uni (troppo grandi) sia per gli altri (troppo piccoli). Secondo: nel corso degli anni, la forbice degli stipendi tra un giovane (25-30 anni) (ammesso che non sia disoccupato) e un adulto a fine carriera (55-60) è arrivata a superare il 25%, un dato molto superiore a quello che accade negli altri Paesi. In un Paese bloccato, merito e impegno raramente vengono riconosciuti, deprimendo la buona volontà di tanti.Così, l’Italia è riuscita nell’impresa di avere giovani insoddisfatti (molti dei quali decidono di andare all’estero per sfuggire a un futuro che qui da noi non promette nulla di buono) e adulti divisi tra coloro che vivono col miraggio della pensione (anche per il rischio di vedere diminuire i loro assegni) e coloro (in genere chi sta in ruoli di responsabilità e di potere) che difendono a oltranza la propria posizione.A che cosa porta questa situazione lo abbiamo visto plasticamente in politica: a fronte dell’ottuso rifiuto di un’intera generazione di favorire il ricambio generazionale – giustificato non da ragioni anagrafiche, ma dai fallimenti accumulati nel corso di tanti anni – alla fine si è prodotta una repentina “rottamazione” che, nel giro di pochi mesi, ha portato alla ribalta una nuova classe dirigente. Oggi Parlamento e governo italiani brillano per la giovane età dei loro membri: merito, esperienza, competenza sono criteri bruciati in nome di un novello furore giacobino animato da una ideologia non più politica, ma generazionale.Dietro queste convulsioni, si celano i problemi che la società italiana non vuole affrontare. Di fronte a un processo così imponente quale l’allungamento della vita (che già da tempo supera gli 80 anni per le donne), si oscilla tra la spinta a elevare l’età pensionabile e il ricorso a forme più o meno occulte di prepensionamento. Ma il tema è impostato male. Da un lato, perché i nuovi posti di lavoro si creano solo con un’economia sana. Dall’altro perché il problema è quello di riuscire ad affrontare la questione dell’uscita dal mercato del lavoro in modo più flessibile, aiutando così anche a ridisegnare, un po’ per volta, i percorsi di vita personali.  Ad esempio, permettendo ai lavoratori di introdurre anni sabbatici – da intendersi come anticipazioni di anni pensionistici – e soprattutto rendendo più flessibile e volontario – entro determinate soglie – il percorso che conduce alla pensione. Non si capisce perché la tanta decantata flessibilità debba valere a senso unico e non possa invece essere adottata come un criterio per far coincidere le esigenze personali e famigliari con quelle aziendali e sociali.  Al fondo, c’e il nodo irrisolto riguardante la natura di quella lunga fase della vita che inizia con la pensione. A oggi, si tratta di un tempo che rischia di rimanere vuoto, fondamentalmente lasciato all’iniziativa individuale. Contrariamente a quanto troppo spesso si afferma, l’età pensionistica non è solo questione economica. Essa comporta l’elaborazione collettiva della natura e del senso, per sé e per gli altri, di questa ormai lunghissima stagione della vita che rischia di cadere nell’oblio o – al più – di venire catturata dalle sirene del consumo. Una società prospera grazie all’equilibrio tra l’entusiasmo e la spinta innovativa dei giovani e l’esperienza e la competenza dei più anziani. Avendo in mente un tale obiettivo, l’opportuno riequilibrio dei rapporti intergenerazionali potrà diventare una leva preziosa per rimettere in moto la crescita, umana, sociale oltre che economica, del nostro Paese.

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