lunedì 11 giugno 2012
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Vorrei commentare le giornate milanesi dedicate alla famiglia con alcune brevi meditazioni sulla felicità familiare. Spero che con questo inizio i lettori non si spaventino. Jacques Maritain diceva che a volte si può fare più filosofia assaporando una ciliegia tra i denti che non scrivendo ponderosi trattati. Mettendomi sulla sua scia, aggiungerei che una battuta, una facezia, una vignetta riescono a volte a farci percepire la realtà meglio di quanto non riescano a fare gli editoriali di illustri (!) accademici. Mi sto riferendo a una vignetta di Altan, apparsa su Repubblica del 4 giugno. Due personaggi, presumibilmente un bambino e una bambina (non per il loro aspetto, ma perché hanno in mano giocattoli) si scambiano due battute, che dovrebbero essere ironiche, ma che a me sono apparse tragiche. Il primo dice: «Abbiamo diritto a un po’ di felicità». La seconda risponde con una domanda: «A chi gliela togliamo?». Sembra che il problema sia davvero tutto qui: a chi dobbiamo togliere quella parte di felicità che non possediamo, ma alla quale riteniamo di avere diritto? A chi ne ha troppa (ma come stabilire il "troppo" della felicità)? A chi non la merita (ma c’è qualcuno che non merita di essere felice)? Ai nemici (ma se poi si vendicano)? Agli amici (ma continueranno a essere amici di coloro che avranno tolto loro la felicità)? Ai genitori? (non c’è dubbio che i genitori sono in genere disponibilissimi a dare ai figli tutta la felicità di cui essi possano disporre... ma in genere non è quella dei genitori la felicità che desiderano i figli). È chiaro che in questo modo non si va molto lontano e che fin dall’inizio il discorso è viziato. C’è qualcosa di distorto, infatti, nell’idea di una felicità, che si può conquistare solo per sottrazione (e al limite per furto), togliendola cioè ad altri. La felicità, quando è vera, è un bene contagioso: chi è felice rende felici gli altri, senza portar loro via assolutamente nulla. Quanto più uno è autenticamente felice, tanto più è in grado di aumentare la felicità altrui. Se le cose stanno così, come dobbiamo interpretare allora la vignetta di Altan? Chi sono i suoi veri destinatari? Vuole colpire quei pochi egoisti, potenti e crudeli, che tolgono subdolamente la felicità al popolo e alle masse? O non colpisce piuttosto – e non so con quanta consapevolezza – l’egocentrismo che pervade l’animo degli uomini di oggi? A me sembra che Altan descriva esattamente la realtà dell’individualismo contemporaneo, nel suo fondo più oscuro e meno confessabile, che non è esagerato definire predatorio. All’incremento della felicità dell’uno non potrebbe che corrispondere il decremento della felicità dell’altro. Mi arricchisco perché l’altro si impoverisce. Conquisto i miei spazi, perché riesco a sottrarli a chi me li contende. Vinco e celebro il mio trionfo perché i miei rivali perdono e vengono umiliati. Se la mia felicità è un "diritto", perché essa si realizzi è inevitabile che l’altro abbia il "dovere" di perdere la sua. Questo paradigma è talmente consolidato nel tempo in cui viviamo che è difficile perfino avvertire quanto sia pervasivo e distorto. Giunge la stagione delle vacanze e i figli abbandonano gli anziani genitori negli ospedali o in apposite residenze: hanno pur diritto a un po’ di felicità e a godersi le ferie! I figli costano e desiderano fratelli con cui giocare e accanto ai quali crescere; ma come è compatibile questa loro felicità con l’aspirazione dei loro (ipotetici) genitori a vivere una felice (e più agiata) vita di coppia? Meglio rinunciare a far figli. Tizio si disamora della famiglia, abbandona la moglie e cerca la sua felicità con un’altra donna, attivando nuovi legami familiari: ho pur diritto – egli sostiene – a un po’ di felicità (e poco conta se, per realizzarla, egli la toglie alla moglie e ai figli che abbandona, a volte condannandoli anche a ristrettezze economiche). È inevitabile a questo punto giungere all’esempio più crudo e oggi meno avvertito, quello delle donne che interrompono la gravidanza: pensano di aver diritto in tal modo a "un po’ di felicità" e non si rendono conto di togliere in tal modo ai loro figli, cui viene preclusa la possibilità di nascere, qualunque possibilità di essere a loro volta, anche se in piccolissima misura, felici. Non credo che nella sua vignetta Altan volesse alludere a tutto questo. Ma ci allude obiettivamente e tanto può bastare.
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