La difesa comune Ue abbia un braccio civile
sabato 23 aprile 2022

Caro direttore,

che senso avrebbe una politica di difesa europea basata su due pilastri, armi e servizio civile? Sollecitato dalla proposta-appello di “Se non ora quando - Libere” che ha accolto e rilanciato sulle pagine di questo giornale, lei risponde che sarebbe un argine allo sviluppo militarista “sghembo” e un antidoto alle spinte a un riarmo “nazionalista” dei singoli Paesi della Ue. Ricordo bene che lei si era già espresso a favore della proposta di un Servizio civile universale obbligatorio, una proposta che circola da tempo nel Terzo settore. Due iniziative accomunate da un’idea forte: il coinvolgimento della società civile per cementare l’identità pacifica e solidale di un continente che sta andando nella direzione opposta. È proprio questo “delta” tra desiderio e realtà a richiedere un investimento di ragionamento.

L’aumento delle spese militari in Europa sembra una strada segnata. E viene motivata in modi diversi: l’invasione russa dell’Ucraina, dare impulso alle imprese delle nazioni europee, proporsi come soggetto forte dinanzi alle grandi crisi internazionali. Ognuna di queste motivazioni è opinabile. L’idea che la deterrenza abbia funzionato è messa in discussione dalle centinaia di conflitti che si sono sviluppati nel dopoguerra novecentesco e che hanno lambito i confini europei. Due intellettuali che avevano vissuto il grande macello della Seconda guerra mondiale, Edgar Morin e Stéphane Hessel, nel 2012 chiedevano un’Europa che guidasse una riforma della governance mondiale per risolvere «la proliferazione delle armi di distruzione di massa, il degrado della biosfera, il ritorno delle carestie e il persistere della malnutrizione, oltre ad una vera e propria regolazione economica che riduca i crimini della speculazione finanziaria, in particolare quella sui prezzi delle materie prime». Morin e Hessel avevano più di 90 anni quando scrivevano quelle pagine e c’è da rimanere ammirati dalla loro lungimiranza: quando tacciono le armi c’è al massimo una tregua, la pace ha bisogno di annullare le ingiustizie e fornire a tutti indistintamente gli stessi diritti. Se non blocchi, per esempio, la distruzione dell’ecosistema stai solo ritardando la prossima guerra, che scatterà per il controllo dell’acqua o dei terreni coltivabili. Un concetto che come Festival dei Diritti Umani non possiamo che condividere e rilanciare.

Ecco perché l’idea di una difesa comune europea basata solo su armi e forze di rapido intervento non è la soluzione. La proposta da cui siamo partiti – il servizio civile europeo disarmato – è sicuramente utile, ma non può che essere un lavoro da formichina. Probabilmente l’Erasmus ha creato più europeismo di un trentennio di convegni e di campagne pubblicitarie di Bruxelles. Ma cosa intendiamo con Europa? Non cosa ciascuno di noi considera Europa ma quali sono i valori comuni?

La Costituzione europea non c’è e non c’è perché i referendum tenuti in Francia e Paesi Bassi l’hanno bocciata; Londra si è chiamata fuori; il cosiddetto “Gruppo di Visegrad” rivendica un’autonomia di comodo. Federico Chabod sosteneva che l’idea di Europa ha una storia lunga, cangiante, ma che comunque si alimenta con la conquista di sempre nuovi diritti. Ecco perché – in conclusione, ringraziando “Avvenire” per questo spazio di confronto – dico anch’io: ben venga un Servizio civile che presenti una faccia pulita e pacifica del Vecchio Continente. Purché abbia scopi precisi e progressivi. E, non meno importante, fondi sufficienti.

Direttore del Festival dei Diritti Umani

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