La Chiesa in Ruanda. Purificare la memoria
martedì 21 marzo 2017

Quella di ieri in Vaticano è stata una giornata altamente significativa, caratterizzata dall’incontro tra papa Francesco e il presidente ruandese Paul Kagame. Per apprezzare il valore di questa visita, la prima da quando il piccolo Paese della regione dei Grandi Laghi è stato sconvolto dal tragico genocidio del 1994, occorre guardare alla complessità della storia.

Oggi il Ruanda è il simbolo di un’Africa in crescita. Tutti gli indicatori economici e sociali sembrano configurare un modello di sviluppo 'riuscito'. Il Pil è cresciuto nel 2016 del 5,9%. Ma i positivi dati macroeconomici non possono far dimenticare il 'passato che non passa', la memoria del genocidio. In appena cento giorni, da aprile a giugno, furono uccise circa un milione di persone, prevalentemente di etnia Tutsi, e quasi tutte con armi da taglio. Da quella immane tragedia a oggi i rapporti tra il governo e la Chiesa cattolica sono stati inficiati da diffidenze e accuse. Nonostante la Chiesa ruandese abbia contribuito all’opera di riconciliazione, il coinvolgimento di alcuni religiosi nei massacri e la loro implicazione nella politica etnicista del precedente regime hanno di fatto 'congelato' i rapporti tra lo Stato e la Chiesa in Ruanda. Alla Chiesa, e in particolare ai missionari, si imputava una sorta di peccato 'originale' derivante dalla storia, ovvero il contributo fornito alla divisione etnica del Paese operata dall’amministrazione coloniale belga a fini politici e di sfruttamento della popolazione e del territorio.

La circostanza, poi, che molti eccidi siano avvenuti all’interno delle chiese dove tanti fedeli si erano rifugiati, spesso per mano di altri cristiani, ha accresciuto il senso di sfiducia nei confronti della Chiesa come istituzione. In realtà, la stessa Chiesa cattolica pagò un pesante tributo di sangue. Tre vescovi e 102 sacerdoti sono stati uccisi, e con loro numerosi religiosi e religiose, tra cui la missionaria laica italiana Antonia Locatelli, assassinata dagli estremisti hutu proprio per aver denunciato le violenze e la preparazione del genocidio: fu una delle primissime vittime. Giovanni Paolo II, mentre a Roma era in corso il primo Sinodo dei vescovi per l’Africa, proprio in quel 1994, non mancò di denunciare i 'massacri fratricidi', e il 27 aprile, durante l’Angelus, condannò apertamente il genocidio in atto nel Paese africano. Della violenza cieca di quei cento giorni e delle sue motivazioni è rimasta una traccia sulle mura della chiesa di Nyamata, dove una delle vittime ha avuto il tempo di incidere questa frase: «Se tu ti fossi conosciuto, se tu mi avessi conosciuto, tu non mi avresti ucciso».

Vent’anni dopo, Papa Francesco esortava i vescovi ruandesi a fare della riconciliazione una priorità del loro ministero. Li invitò a essere sempre di più una 'Chiesa in uscita', raccomandando di superare pregiudizi e divisioni etniche e di lavorare per rafforzare i rapporti di fiducia tra la Chiesa e lo Stato. A conclusione del Giubileo della Misericordia la Conferenza episcopale, in una lettera pastorale letta in tutte le chiese, ha chiesto perdono «per tutti i membri della nostra Chiesa che hanno avuto un ruolo nel genocidio del 1994 contro i Tutsi, e per tutti i pastori che hanno causato conflitti e hanno sparso semi di odio nel loro popolo». Si è trattato di una presa di posizione molto chiara che ha aperto quello spiraglio di rinnovata fiducia che ha permesso l’incontro avvenuto ieri.

E di tale nuovo clima è possibile trovare espressioni significative nel comunicato diffuso dalla Santa Sede dopo il colloquio tra Francesco e Kagame: «Il Papa ha manifestato il profondo dolore suo, della Santa Sede e della Chiesa per il genocidio contro i Tutsi, ha espresso solidarietà alle vittime e a quanti continuano a soffrire le conseguenze di quei tragici avvenimenti e, in linea con il gesto compiuto da San Giovanni Paolo II durante il Grande Giubileo del 2000, ha rinnovato l’implorazione di perdono a Dio per i peccati e le mancanze della Chiesa e dei suoi membri, tra i quali sacerdoti, religiosi e religiose che hanno ceduto all’odio e alla violenza, tradendo la propria missione evangelica». L’incontro di ieri può dunque segnare l’inizio di una nuova stagione caratterizzata da una autentica 'purificazione della memoria' e dalla volontà di ristabilire il valore del dialogo tra gruppi, etnie, soggetti. Un fatto decisivo per una regione, quella dei Grandi Laghi, che abbraccia Paesi nei quali permane una situazione di grave instabilità politica e di contrasti etnici. Un contributo alla costruzione di società riconciliate nelle quali si riscopre il valore della convivenza e della pluralità.

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