Seguendo il culto della tecnica finiremo bolliti come la Rana
mercoledì 11 ottobre 2023

Nel 1882, in un esperimento alla Johns Hopkins University, alcuni ricercatori americani notarono che lanciando una rana in una pentola di acqua bollente, questa saltava sempre fuori per trarsi in salvo. Al contrario, mettendo la rana in una pentola di acqua fredda e riscaldando la pentola lentamente ma in modo costante, la rana finiva bollita. Noam Chomsky ne ha tratto – in Media e potere, 2014 – un apologo riflessivo sull’acclimatamento delle nostre società, mediato dalla manipolazione del potere, a situazioni insostenibili e senza futuro: «Immaginate un pentolone pieno d’acqua fredda nel quale nuota tranquillamente una rana. Il fuoco è acceso sotto la pentola, l’acqua si riscalda pian piano. Presto diventa tiepida. La rana la trova piuttosto gradevole e continua a nuotare. La temperatura sale. Adesso l’acqua è calda. Un po’ più di quanto la rana non apprezzi. Si stanca un po’, tuttavia non si spaventa. L’acqua adesso è davvero troppo calda. La rana la trova molto sgradevole, ma si è indebolita, non ha la forza di reagire. Allora sopporta e non fa nulla. Intanto la temperatura sale ancora, fino al momento in cui la rana finisce – semplicemente – morta bollita. Se la stessa rana fosse stata immersa direttamente nell’acqua a 50°C avrebbe dato un forte colpo di zampa, sarebbe balzata subito fuori dal pentolone».

Ecco, Francesco, con l’esortazione apostolica Laudate Deum, ci ha detto, facendo il bilancio della sordità del potere anche ai suoi massimi livelli sovranazionali, con il reiterato fallimento sostanziale delle conferenze internazionali sul clima e sull’ambiente, che noi siamo nella situazione della rana, a rischio di non poter più saltare fuori dalla pentola in ebollizione che con il riscaldamento globale è diventato il Pianeta.

A capire la situazione basta andare sul sito di National Geographic e cliccare su un simulatore che mostra come sarà la terra tra 50 anni se non riduciamo le emissioni di CO2. Stare a Londra sarà come oggi a Siena, Napoli sarà come Marrakech, Hanoi avrà un clima impensabile. In sostanza, saranno inabitabili per motivi termici aree del Pianeta dove oggi vivono due miliardi di persone. Una situazione che ha già generato fenomeni ridicoli se non fossero tragici, cioè un mercato immobiliare di terre oggi ghiacciate che saranno temperate. Un po’ come la corsa ai rifugi antiatomici sotterranei degli anni 60 del secolo scorso, da cui uscire a guerra finita per trovarsi in un cimitero irrespirabile. Eppure, c’è chi ancora nega o minimizza (ed ai livelli del potere tecnocratico e politico è uno scandalo nello scandalo) che il compito che abbiamo davanti è “riassorbire” in un metabolismo sostenibile l’organicità planetaria, globale del nostro stare al mondo. Organicità circostanziale e circostanziata che non è più possibile rimuovere nell’ottica esiziale e breve di una trimestrale di cassa mercatoria, per giunta competitiva e in reciproca distruttiva conflittualità, esponendoci la sua assenza e la sua non traduzione in una governance globale condivisa a un rischio esistenziale, che coinvolge tutti come ci hanno detto con autorevolezza le due grandi encicliche di Francesco: Laudato si’ e Fratelli tutti. “Agende” globali di quel dovremmo fare, e tra i pochi punti di riferimento riflessivo in un’età dell’ansia in cui siamo coinvolti tutti esposti al rischio della rana bollita di Chomsky.

Il paradigma tecnocratico della società che abbiamo prodotto, non compensato da capacità morale e intellettuale e politica capace di indurre a comportamenti conseguenti alla situazione, ci ha condotto nel vicolo cieco di una razionalità non conforme al fine, se il fine è l’uomo. La concezione antropologico-strumentale della tecnica come strumento per i fini dell’uomo appare sempre più archeologica, e la sua finalità sembra essere sempre più solo l’incrementalità operativa della sua stessa strumentalità, cui non siamo più in grado di dettare fini. Subiamo un paradigma tecnocratico che è diventato un paradigma “tecneista”. Un brutto neologismo che mi serve a dire il nuovo Dio che regge il nostro rapporto con il mondo, la tecnica, ai cui altari officiano i “tecneisti” di ogni ordine e grado, che aumentando senza criterio la dose del farmaco (la nostra capacità di artificio) necessario a vivere lo stanno trasformando in un veleno mortale.

Nel 1914, José Ortega y Gasset ebbe a scrivere, nelle Meditazioni del Chisciotte, due righe decisive: «Io sono io e la mia la circostanza, e se non salvo la mia circostanza non salvo nemmeno me stesso». Una frase che era insieme l’epitaffio del mondo della “sicurezza europea”, da lì a poco in frantumi con la guerra, e la profezia del mondo livido a venire che avrebbe segnato il 900. Due righe che oggi andrebbero meditate sulle scrivanie delle cancellerie del mondo per evitare che sia l’epitaffio dell’età della tecnica.

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